giovedì 29 novembre 2007

Il ciclo di nascita e morte.


Preso da uno slancio riassuntivo delle concezioni sulla morte nelle varie impostazioni filosofico-religiose e nel pensiero comune, mi sembra che in definitiva esistano solo due idee principali e contrapposte:

1. con la morte finisce la vita; dunque essa è un annullamento, un annientamento. Non c'è nulla "oltre". La vita si identifica con la materia, con la dimensione fisica visibile e con i sensi ordinari.

2. l'anima sopravvive al trapasso perché immortale ed eterna. Nell'ambito di questa visione, poi, si ipotizzano diverse forme di sopravvivenza: per esempio quella in un aldilà definitivo, in vicinanza o meno del divino, come nel cattolicesimo; oppure si pensa alla trasmigrazione o reincarnazione dell'anima immortale in successivi corpi fisici, per vivere ulteriori vite, come nell'induismo.

Il buddismo, insieme ad alcune vette del pensiero "esoterico" d'occidente, per ciò che riesco a comprendere, non è in totale accordo con nessuna delle due concezioni - considerandole non corrette. Tuttavia valuta che ci sia qualcosa di vero in ambedue, essendo espressioni di verità parziali.

Il nostro "io" così come lo conosciamo è un prodotto dei fattori che lo hanno generato: elementi genetici prima e dopo la nascita, condizionamenti culturali, ambientali e via dicendo. Nel buddismo tutte queste componenti che costituiscono la nostra personalità e l'io sono chiamati i "cinque aggregati": forma, percezione, concezione, volizione e coscienza. Nell'esoterismo "di punta" si parla di corpo fisico, astrale, mentale istintivo, mentale inferiore e superiore, ma i concetti sono analoghi: tutto quanto costituisce la nostra "stuttura", tutto ciò con cui ci identifichiamo, i nostri corpi e aggregati, è transitorio, condizionato e soggetto a "morte", a mutamento e disgregazione. Cioè, in altre parole, il "Maurizio" quale io mi sento è un fenomeno transitorio e impermanente, condizionato e deperibile come tutti gli eventi del mondo manifesto. Pur dando credibilità a dimensioni ultra-fisiche, psichiche o altro, queste considerazioni affermano che la realtà del nostro io, del nostro fisico e della nostra psiche, è identificabile con un meccanismo, una sostanza condizionata e soggetta a nascita-crescita-morte, e quindi si possono accostare a quei punti di vista moderni ateistici o materialistici che negano ogni sopravvivenza e ogni realtà sopra-sensibile.

Tuttavia il buddismo non si limita a questo, particolarmente negli sviluppi del Mahayana e del Sutra del Loto, affermando che comunque esiste all'interno della vita sia universale che individuale un quid eterno, da sempre e per sempre. Questa sorta di vera identità profonda e stabile non ha però nulla a vedere con l'anima quale normalmente è concepita. Si tratta infatti, in questo caso, di una forma di coscienza che non si risolve nei sensi fisici, nella psiche o nella mente, e neanche con il senso dell'io che con ciò si identifica, e non è legata neanche al Karma, cioè ai condizionamenti, pur essendo tutte queste cose parte di essa e sua espressione.

Tutto ciò è forse complesso, difficile da spiegare e da esaurire, però in definitiva possiamo osservare:

1. è vero che l'io finisce, perché è esso stesso un fattore condizionato, limitato e impermanente. Quindi si muore.

2. è vero che esiste una base eterna della coscienza e della consapevolezza, di difficile descrizione, in relazione con la vita universale e con quella individuale, che costituisce il filo conduttore, la spiegazione, per così dire la causa e il punto di arrivo delle nostre esistenze, pur essendo qualcosa che è oltre il tempo e quindi che non subisce trasformazione e divenire.

Concludo con una considerazione: gli assunti del buddismo non sono tanto delle speculazioni, quanto delle percezioni profonde della realtà che, magari, poi vengono anche sistematizzate in forma logica e speculativa. Essendo percezioni sulla natura della vita, di cui tutti facciamo parte, sono semplici e immediate, in un certo senso sperimentabili. Non è forse vero che tutti noi sappiamo che la morte c'è, che tutto quanto conosciamo è impermanente e, al contempo, non sappiamo tutti che c'è qualcosa di indefinibile e di eterno non soggetto a nascita e morte?

A me sembra proprio così...

mercoledì 14 novembre 2007

L'isola dei famosi.


Vorrei provare a dire qualcosa sull'"Isola dei famosi", il reality show. Non nel senso delle considerazioni più o meno critiche sul fenomeno "reality", sulla TV trash, eccetera, eccetera. Vorrei anzi dire che trovo piuttosto interessante quanto viene mostrato in questo show, e l'idea che ne è alla base mi sembra intrigante.

In alcune società primitive esistono dei "riti-di-passaggio", per esempio quello dall'adolescenza all'età adulta per gli individui maschi di certe etnie, nei quali i componenti di un gruppo, di una fascia sociale, di una tribù, vengono lasciati nella foresta, senza aiuto, soli, a dimostrare la loro possibilità di cavarsela, il coraggio, il loro essere "adulti", oppure per manifestare e controllare "poteri" sciamanici in relazione alle forze naturali, agli spiriti, e via dicendo.

Il programma televisivo in questione non è, da un lato, paragonabile a queste tradizioni che hanno la loro realtà, spontaneità e verità: qui è tutto costruito, apparente, legato comunque ad un altro tipo di società, la nostra, ed ha significati immediati completamente diversi - è soltanto uno show, e il suo principale obiettivo è l'audience, la pubblicità e tutto quanto collegato. Però, forse, nel profondo, le analogie ci sono: forse si tratta davvero di un "rito-di-passaggio" partorito dalla nostra cultura moderna e adatto ad essa con tutte le sue caratteristiche, per esempio la componente televisiva dell'effimero e dell'immagine. Un rito cui, però, partecipano sia i protagonisti che gli spettatori attraverso l'identificazione, come in un dramma catartico.

I "famosi" che gradualmente diventano anche affamati e i "non-famosi" che aspirano alla notorietà, in fondo, rappresentano molto efficacemente noi occidentali moderni e la nostra società che ha fatto naufragio, e in cui la fame principale, il bisogno primario, è quello di ritrovare sé stessi, la propria umanità, i valori profondi, il rapporto con gli altri uomini su basi di verità e collaborazione.

I famosi-affamati siamo proprio noi, nella nostra vita comune e quotidiana. Abitiamo in isole caraibiche, in paradisi artificiosi, nel cosiddetto benessere, però ci manca il necessario per l'anima, abbiamo perso la nave, la casa, ci siamo arenati su una falsa idea di successo e di piacere. Non siamo in grado di avere rapporti sinceri e basati sull'essenza, non siamo in contatto con noi stessi, ma conosciamo solo l'idea che abbiamo di noi stessi, il nostro apparire e dimostrare. Siamo naufraghi.

I protagonisti del reality televisivo, e anche noi che li osserviamo, mettono in scena la presa di coscienza di tutto questo. Durante la loro permanenza nell'isola dell'Honduras - che da un lato rappresenta l'illusione della vacanza e del successo e dall'altro è isolamento e occasione introspettiva - lasciano emergere ciò che nel buddismo si chiamerebbero i tre veleni: avidità, stupidità e aggresività. Come in un processo meditativo, come in un seminario o un workshop autoconoscitivo, si manifestano le contraddizioni, le ostilità, le meschinità - se ne prende coscienza. La televisione indugia su tutto ciò, lo sottolinea, lo utilizza come mezzo per far presa sul pubblico - forse in un processo catartico. Qualcuno dei protagonisti, poi, comincia a lasciar emergere dal profondo di sé qualcosa di diverso, di non contaminato e non oscurato dalle privazioni, dall'ego, dai veleni propri e altrui. In qualcuno emerge una forza, una semplicità, una sincera umanità che, probabilmente, va oltre il desiderio di apparire, che ha una sua realtà - proprio perchè si manifesta in condizioni difficili. Tutti i protagonisti, mi sembra, dopo l'esperienza, raccontano di aver ritrovato in tutto o in parte "sé stessi". Gli spettatori ne sono soddisfatti e affascinati, oltre ad essere ammaliati dalla consueta rappresentazione televisiva del conflitto: sì, nel profondo siamo anche stupiti dell'emergere di qualcosa che accenna al suo superamento, qualcosa di nuovo e di interiore, qualcosa che - in definitiva - attendiamo: una prospettiva di stabilità, certezza e realtà... oltre il naufragio.