mercoledì 30 dicembre 2009

Dibattito inespresso sui rituali




Il seguente colloquio è la versione un po’ trasfigurata di uno scambio di opinioni realmente accaduto. I coniugi Bigo, al di là del nome fittizio e di alcune modificazioni di fantasia, sono persone realmente esistenti. La differenza più rilevante fra le cose di seguito dette e quelle pronunciate davvero sta nel fatto che scrivendo sono libero di esprimere fino in fondo il mio punto di vista, mentre con i veri Bigo vengo cortesemente tacitato prima di poterlo fare.

Grimilde Bigo ci chiede gentilmente: “Scusate, sapreste dirmi – in nome di Dio - perché non vi siete sposati con rito religioso?”
Rispondiamo: “La nostra intenzione era ed è sempre stata “religiosa”, perché abbiamo dato anche un valore interiore, spirituale, d’anima, alla nostra unione.”
“Si, vabbé” replica Grimilde sbrigativa,“però in queste cose ha la sua importanza l’aspetto rituale. Bisogna vedere che cosa “ufficialmente” si professa dal punto di vista religioso. Si può anche praticare il buddismo, come fate voi, oppure lo yoga induista, la massoneria, i culti magici o chissà cos’altro, ma ufficialmente siete cattolici! Quindi, se ci si sposa bisogna farlo con il rito della religione cui ufficialmente si appartiene. Sposarsi soltanto con il rito civile è parte della moderna decadenza dei costumi e della morale, nonché della dilagante perdita di valori.”
Essendo abbastanza abituati alle opinioni dei coniugi Bigo e conoscendoli da molti anni, riusciamo a percepire in questa sorta di ramanzina un’intenzione non troppo ostile nei confronti nostri e delle nostre scelte, anzi, probabilmente c’è lo scopo positivo di offrire un insegnamento. Tuttavia, pensandola in modo diverso, mi vedo costretto ad obiettare:
“Vedi Grimilde, lo so che ciò contrasta con le vostre opinioni, però credo che la crescente laicità della società, dei costumi e degli individui sia un valore, non una perdita: significa che le persone sono o dovrebbero essere più responsabili, senza necessariamente un’autorità sovraimposta. Essendo questo un fine ideale, non ancora veramente realizzato ma al quale bisogna lavorare, esso ha sicuramente delle connotazioni evolutive, etiche e spirituali; ma questo è un altro discorso, che abbiamo già affrontato più volte e che, come già sappiamo, non ci trova in sintonia. Però, per tornare alla questione attuale, ti devo rispondere che “ufficialmente” noi non siamo più cattolici, bensì buddisti.”
“Cosa?”, esclama Grimilde, “com’è possibile, che cosa diamine state dicendo? Voi praticate il buddismo, ma è una sorta di moda, un esotismo, e non implica un cambiamento di religione!”
“Beh” rispondo, “nel nostro caso sì: ormai 13 anni fa, come ho cercato di spiegarti altre volte, abbiamo fatto un atto vero e proprio di conversione, aderendo ad un Istituto buddista pienamente riconosciuto dallo Stato italiano. Si tratta di un riconoscimento formale e ufficiale. E’ in corso anche un procedimento d’intesa per il quale un matrimonio buddista possa essere legale, ma ancora non è completo. Quindi, per ora, bisogna – prima di fare il rito buddista – essere già sposati civilmente presso il Comune di residenza. In un prossimo futuro sarà certamente diverso.”
“La cosa mi lascia veramente perplessa” asserisce la nostra amica, “soprattutto sulle motivazioni che hanno condotto a questa cosiddetta “conversione”. Personalmente credo che le religioni siano tutte uguali, e quindi non occorre certo convertirsi! Inoltre, visto che sono uguali o equivalenti nella sostanza, potevate anche sposarvi con cerimonia cattolica – che oltretutto incarna la nostra tradizione. Fate pure come volete, comunque sarebbe stato meglio conferire un valore spirituale al matrimonio…”
“Scusa se replico ancora: non è per fare polemica ma, visto che mi solleciti concettualmente, mi sembra doveroso chiarire. Innanzitutto devo dire che noi consideriamo “spirituale” la nostra unione, e lo testimonia il nostro lungo e armonioso percorso insieme. Inoltre, proprio in quanto buddisti, non abbiamo alcun bisogno del rito buddista per “santificarla”: questo rito è considerato un “optional”, qualcosa che avremmo molto gradito, ma non avremmo neanche voluto sottoporre i nostri ospiti a due cerimonie, quella civile e quella religiosa, magari in due giorni diversi. Per un buddista è un impegno continuo, di ogni istante, trovare una sintonia con il divino, non un sacramento concesso una volta per tutte. Infine, per ciò che riguarda il seguire la nostra religione “tradizionale”, mi chiedo perché non praticare allora il culto di Giove, dei Lari e dei Penati – lasciando il cristianesimo all’oriente da cui proviene?”
A questo punto interviene Otto Bigo, piccato: “Mi pare che non tutti i buddisti la pensino alla stessa maniera. Certo, lo so che esistono diverse impostazioni in questa religione, ma pensavo che almeno aveste un rituale unitario per il matrimonio! Così dimostrate di essere delle… sette!”
“Indubbiamente ci sono delle differenze fra le varie scuole, ma questo non è stato mai motivo di guerra, di scontri cruenti o di procedimenti inquisitori nella storia del buddismo. Anzi, le differenze potrebbero essere perfino la ricchezza di questa grande religione! Sebbene ogni impostazione rivendichi una maggiore aderenza all’insegnamento originario del Budda, tutte accettano il dibattito con le altre scuole. Perché, dunque, uniformarsi, soprattutto quando le differenze possono essere rilevanti? E’ giusto, invece, che ognuno possa professare e attuare il suo punto di vista. O vogliamo “globalizzare” anche la religiosità? Io so che, soprattutto nei paesi di lingua inglese, esiste un rituale di matrimonio unitario fra varie confessioni cristiane. Lodevole, ma non tutti aderiscono. Voi, ad esempio, con quale tipo di cerimonia vi siete sposati?”
“Cattolica, è ovvio” esclama Otto.
Ecco, appunto…

Sposi!



Il giorno 16 dicembre 2009 io e Paola ci siamo sposati dopo ben 33 anni di “fidanzamento”! In effetti siamo sempre stati talmente convinti di essere nella sostanza già uniti in matrimonio che, per motivi legali e formali, avremmo utilizzato volentieri anche soltanto la legge sulle coppie di fatto promessa dallo scorso governo. Poiché quella innovazione legale non è stata poi attuata, abbiamo deciso di sposarci regolarmente con cerimonia civile. Devo dire che – in maniera non del tutto prevista, essendo nelle intenzioni iniziali una presa d’atto formale dell’unione già esistente – la cerimonia è stata particolarmente sentita e commovente. Di questo ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato, che ci hanno sostenuto, accolto e festeggiato con il cuore – e sono stati tanti, fra amici e parenti. Per ciò che riguarda noi due siamo felici di aver trascorso insieme tutti questi anni e lo siamo tuttora, immensamente, nel condividere le nostre vite. Sappiamo che questo tipo di unione non è scontato, anzi, che è una grande fortuna, una benedizione, e di questo siamo grati. Oggi possiamo dire di aver raggiunto un ulteriore e importante traguardo: quello di un completo riconoscimento familiare e sociale. Grazie veramente, grazie a tutti!

giovedì 3 dicembre 2009

Londra: il crocevia degli opposti



Dopo quindici anni siamo ritornati a Londra, così, per vedere com'è eventualmente cambiata e l'effetto che ci fa. Devo dire che, al di là delle novità come "the London Eye" (la ruota panoramica) e simili modificazioni scenografiche, architettoniche e strutturali della città, la percezione che se ne ha è sempre la stessa: accoglienza, cosmopolitismo e buona organizzazione. C'è una grande fusione di contraddizioni e di opposti polari a Londra, dove convivono armonicamente tradizione e innovazione, provincialismo e globalismo, rigidità e flessibilità, caos e ordine, monarchia e democrazia, e via dicendo. A pensarci bene, non è che queste opposizioni si fondano veramente, anzi, permangono immutate, però si incontrano, si toccano, vivono insieme, si alternano e cooperano, forse si rispettano persino. Non si arriva allo scontro diretto e definitivo degli opposti, semmai all'ignorarsi reciproco e, quindi, anche alla tolleranza, perché ognuno può essere proprio com'è, trovare il suo ambito in questo grande insieme che è la città, in questa enorme, variopinta e sterminata folla metropolitana. Londra ancora oggi incarna l'Impero Britannico, dove trovano spazio l'Europa, l'Asia, l'Africa, l'Oceania... dove tutto ha cittadinanza purché non si violino le semplici regole comuni della convivenza. Così l'enorme ruota panoramica che troneggia davanti al Big Ben, a Westminster e alle Houses of Parlament è, a ben vedere, la manifestazione visibile di un archetipo, un grande simbolo che ben descrive il senso e la profondità di questa città: è l'archetipo della Ruota, The Wheel of Fortune, l'Arcano X del Libro di Toth, dove il movimento inarrestabile degli opposti che salgono e scendono sulla circonferenza della ruota stessa sono compensati dall'immobilità e l'immutabilità del centro, del mozzo, mentre il tutto è sovrastato dall'equilibrio di un'enigmatica sfinge, alata e coronata, che sorregge la spada del diritto.

martedì 10 novembre 2009

Lo Zen Rinzai e l'uso dei koan.




Esistono due grandi tradizioni all'interno del buddhismo Zen: la Rinzai e la Soto. La prima deriva direttamente da una scuola di meditazione del buddhismo cinese, poi introdotta in Giappone nel XII secolo. La seconda fu fondata dal Maestro giapponese Dogen, ordinato monaco e poi recatosi in Cina per approfondire la ricerca personale degli insegnamenti del Buddha; ricerca di cui, successivamente, riportò in patria gli esiti. Un detto giapponese recita: "La Rinzai per lo Shogun, la Soto per i contadini", perché effettivamente la prima impostazione - dallo spirito severo e marziale - prese piede soprattutto negli ambienti dei governatorati militari di Kamakura del XIII secolo, mentre la seconda - forse più "rustica" e meno affilata - si diffuse prevalentemente fra la gente semplice, del popolo. Ulteriore differenza fra le due scuole sta nel fatto che la Rinzai affianca alla pratica della meditazione zazen (seduta), alla lettura dei Sutra e ai mantra cerimoniali anche l'uso dei koan, mentre la Soto non si avvale di questi ultimi come oggetto di meditazione, oppure lo fa in misura decisamente inferiore, prediligendo lo zazen puro e semplice. Che cosa sono i koan? Generalmente si tratta di aneddoti, storie, affermazioni o domande dalle caratteristiche enigmatiche e paradossali, non comprensibili o risolvibili con l'aiuto della logica e della razionalità. La comprensione dei koan necessita invece dell'intuizione e della percezione diretta della realtà, ed equivale ad una sorta di apertura interiore e ad un superamento della mente concettuale, tale da poter coincidere in tutto o anche solo in parte con l'Illuminazione. L'Occidente rimase affascinato dall'uso che lo Zen fa dei koan allorché ci fu il primo evidente incontro fa la cultura rivoluzionaria che si andava sviluppando in Europa e negli Stati Uniti e le filosofie orientali: gli indovinelli dello Zen apparivano come delle divertenti, intriganti e affascinanti sfide alle concettualizzazioni tradizionali, e vennero ben accolti in quell'atmosfera di ricerca e di sperimentazione liberatoria che dilagò nella società e fra i giovani degli anni 60 e 70 del secolo appena trascorso. Tuttavia non bisogna dimenticare che il koan propriamente inteso ha il suo fondamento in particolari pratiche meditative e in un corpus filosofico-dottrinario di cui rappresenta un ulteriore strumento e completamento. Sarebbe quindi fuorviante cercare di comprendere lo Zen identificandolo soltanto con i koan e la connessa letteratura, perchè c'è molto altro da valutare e da sperimentare, essendo poi il buddhismo un percorso eminentemente esperienziale. Ad ogni modo, a me sembra che il senso principale dei koan - così come può apparire in una raccolta di essi come il Mumonkan, la "Porta-senza-porta" - stia nell'indicazione di abbandonare il pensiero concettuale, di andare oltre, perché il pensiero è una schematizzazione, una gabbia, rispetto al fluire della vita e della realtà sempre mutevoli e mai del tutto definibili. Da questo punto di vista la ricerca dell'Illuminazione non è tanto quella che costruisce ulteriori concetti, limitazioni e dogmatismi nell'ambito della conoscenza del divino, di sé stessi o della realtà, quanto piuttosto quella che ingenera un decondizionamento, un'apertura della coscienza in senso liberatorio. Detto ciò, e riconosciuto il profondo valore di questo tipo di visione, devo tuttavia esprimere alcune perplessità rispetto al buddhismo Zen. Non me ne vogliano i seguaci di questa disciplina, sono soltanto mie impressioni personali, con i limiti che ne derivano (forse, proprio come dice lo Zen a proposito degli stolti, invece di guardare la luna, guardo il dito che la indica)! Prima di tutto, trattandosi comunque di una concezione - come è anche naturale che sia - mi sembra che il fatto di abbracciarla e seguirla tenda a negare nei fatti quanto le continue affermazioni anticoncettuali sembrano voler indicare: cioè si segue una visione, un'idea, un'elaborazione della mente, al punto da costruire una vita monastica, l'obbedienza ad un maestro e alle sue norme o, comunque, l'adesione ad una disciplina spesso molto severa e strutturata. Poi, probabilmente influenzato dalla mia ottica di occidentale, devo confessare una curiosa ma decisa impressione rispetto alla tematica e allo stile dei koan: quella di una sorta di iperconcettualismo piuttosto che di una sua assenza, anzi, di un intricato gusto del paradosso di tipo... squisitamente cerebrale! Può una tale cerebralità originare da quel silenzio mentale e da quell'adesione della mente e del cuore all'Assoluto che si vogliono indicare ed insegnare? Beh, questa domanda... è un pò il mio koan!

lunedì 2 novembre 2009

Bene, male e relativismo.



Qualcuno afferma di sapere esattamente cosa siano il bene e il male e di saper utilizzare praticamente questa conoscenza nella sua vita, cioè di seguire il bene e combattere il male. Quel qualcuno aggiunge che il mondo di oggi è confuso, che i filosofi moderni sono confusi e sono dei cattivi maestri perché non propongono più una corretta distinzione fra bene e male e fanno del mero relativismo in proposito. Distinguere il bene dal male è facile, prosegue - un'azione violenta è male, anche una semplice scortesia nel salutarsi: augurarsi il buon giorno è sostanzialmente differente dall'aggredirsi quando ci si incontra! E' solo un esempio, dice quel qualcuno, ma vale a far comprendere la differenza fra bene e male. Allo stesso modo, ammalarsi è male, stare in salute è bene (!), e via dicendo... semplice, no? Si, semplicissimo, anzi direi... semplicistico. Non che le cose semplici non siano apprezzabili, tutt'altro. Però vorrei citare la definizione di semplicismo data dal Dizionario Garzanti: "modo troppo semplice di considerare le cose, senza penetrarne le ragioni profonde, per superficialità, pigrizia o effettiva incapacità." Naturalmente tutti tendiamo ad essere d'accordo sul fatto che bisogna agire perseguendo il bene e non il male, per lo meno coloro che si pongono questioni etiche, ma per applicare questo principio in relazione alla vita vera e non alla teoria bisogna riflettere e mettersi in discussione. Per esempio: come riteniamo di classificare dal punto di vista delle categorie "bene" e "male" l'eutanasia, l'omosessualità, l'aborto, la guerra preventiva e non, la famiglia "allargata", il rapporto con altre religioni come l'Islam, eccetera, eccetera? Vogliamo scommettere che abbiamo, ognuno di noi, delle risposte differenti, anche molto molto differenti? Significa forse che chi non la pensa come noi sta dalla parte del male, perchè - naturalmente - siamo noi ad essere da quella del bene? Anche volendo prescindere dai grandi temi etici, può non essere facile capire dove stanno il bene e il male nelle piccole scelte, in famiglia, nelle relazioni con gli altri, a livello personale: bisogna accettare una certa proposta di lavoro oppure no, cercare di correggere chi ci sembra che stia sbagliando oppure essere indulgenti, essere gentili o severi, decisi o remissivi? A me sembra evidente che non si possa dare una risposta sola e sempre valida, perché il "bene" può presentarsi in modi diversi, e il "male" altrettanto - e i casi sfumati, non immediatamente categorizzabili, sono la regola più che l'eccezione! Inoltre da situazione a situazione e da momento a momento la valutazione può mutare, bisogna essere molto attenti, ben desti! La questione della scelta giusta impone una riflessione continua a chi sente l'esigenza di un comportamento etico: un continuo dubbio, un sapersi mettere in discussione, una costante attenzione alla conoscenza di sé. Certamente il cosiddetto relativismo può effettivamente arrivare all'eccesso di relativizzare troppo l'etica, e ciò è male. Però va anche detto che la consapevolezza della complessità, delle sfaccettature che ogni azione, pensiero o parola possono avere, è una forma di maturità dell'essere umano. Decidere sempre in base ad un decalogo stabilito una volta per tutte è un tantino troppo schematico e superficiale, anche se può essere utile per chi non vuole accettare la responsabilità di scelte e decisioni mature, ma preferisce uniformarsi a dettati autoritari morali o divini. Sicuramente alcuni dei principi dei comandamenti tradizionali sono validissimi quando prescrivono il rispetto e la non-violenza verso gli altri, per esempio il "non rubare" e il "non uccidere". Tuttavia il "non avrai altro dio al di fuori di me" e l'"onora il padre e la madre" sono già discutibili, soprattutto quando la prima proposizione degenera in fanatismo e la seconda propone una cieca sottomissione a possibili figure genitoriali depravate.


Vogliamo dirla tutta? Beh, secondo me seguire un rigido schema in queste questioni è violenza, cecità, fanatismo, insomma è... male! Con buona pace dei benpensanti.
Cosiddetti.

martedì 20 ottobre 2009

Jñana: conoscenza, traslitterazione e suscettibilità.



Jñana è la parola sanscrita per "conoscenza", da cui deriva probabilmente la parola greca Gnosi di uguale significato. Naturalmente, per quanto riguarda queste e altre lingue, le parole vengono traslitterate nell'alfabeto occidentale moderno in vario modo e con diversi sistemi per cercare di rendere la pronuncia originale nella maniera più precisa possibile. Sfortunatamente, però, le traslitterazioni sono solo indicazioni che bisognerebbe approfondire, perché non sempre offrono immediatamente e intuitivamente la corretta soluzione. Per questo motivo alcune parole, pure molto note, non sono conosciute nella vera pronuncia al di fuori dell'area culturale di provenienza. Capita quindi di incontrare persone che per anni si sono interessate per esempio di Yoga, filosofie e tecniche orientali, che non sanno come si pronuncia Jñana - parola che nello Yoga ha una certa importanza: esiste, infatti, lo Jñana Yoga, lo Jñana Mudra, gli Jñanendriya (i sensi come organi di conoscenza), esistono nella Bhagavad Gita e nei testi buddhisti parole composte come Vijñana, eccetera, eccetera. Queste persone pronunciano g-nana, con la "g" di giorno. Intendiamoci, non è un grosso problema, si può anche vivere senza sapere che in realtà si dice gnana con la "gn" di sogno o, in altro dialetto indiano, ghiana - con la "g" dura. Le ricerce e gli interessi di queste persone sono comunque valide e degne di rispetto, ci mancherebbe altro! Eppure può capitare com'è successo a me che, offerta la giusta indicazione di pronuncia, questo semplice fatto metta tali persone in difficoltà - come se si ferisse la loro suscettibilità di conoscitori della materia.
La loro prima reazione, quindi, nel mio caso, è stata di negare valore alla corretta pronuncia, asserendo che ciò che importa è il concetto sostanziale e che la parola è soltanto un fatto esteriore, vuoto e superficiale. Eppure la cultura indiana cui appartiene il termine in esame è prevalentemente "mantrica", cioè attribuisce un enorme valore, anche filosofico e metafisico, al suono delle parole (shabd);
La seconda reazione è stata pretendere che la persona che sventuratamente ha offerto la precisazione (cioè io) l'abbia fatto per apparire più colta e preparata, insomma con intento narcisistico.
La terza reazione è stata quella di fare della facile (ma molto elaborata) ironia sulla venerazione del Sanscrito da parte di chi si documenta sulla pronuncia di una parola di questa lingua e ha anche la pretesa di farlo sapere agli altri!
A questo punto, dopo aver tentato di replicare senza riuscire ad instaurare un vero dialogo sull'argomento, mi sono chiesto perché mai l'avevo affrontato, chi me l'aveva fatto fare! E' stato allora che, intuendo il mio disagio, le persone in questione hanno manifestato una quarta reazione: quella di presumere che mi ero offeso per le loro osservazioni (pseudo-)ironiche! Insomma, come si dice in napoletano... curnut' e mazziat'!!!
Vorrei, comunque, chiarire almeno qui i seguenti punti:
  • non attribuisco un valore assoluto alle pronunce, alle regole grammaticali, alle precisazioni concettuali, alle ricerche filologiche, storiche, contestuali - però sono interessato a tutte queste cose come strumenti limitati ma utili alla... conoscenza (Jñana!);
  • nello studio del testo di una diversa area culturale mi sembra doveroso fare un minimo di attenzione alla provenienza, al sub-strato antropologico, storico e simili, se non altro per cercare di comprendere - per quanto possibile - le intenzioni degli autori, il significato del testo stesso, eccetera;
  • una cosa è l'erudizione fine-a-sé-stessa, una cosa è il rispetto degli altri, delle altre lingue, delle altre civiltà;
  • errori e imprecisioni sono possibili e accettabili da tutti i punti di vista, ma non vedo perché rifiutare le eventuali correzioni;
  • se perfino la pronuncia corretta di un termine sembra un elemento superficiale e insostanziale, mi chiedo perché prendere spunto per le ricerche cosiddette "spirituali" da culture diverse dalla propria, dato che richiedono un certo impegno di comprensione e approfondimento;
  • attingere da testi di altre religioni e filosofie solo per confermare il proprio punto di vista e ritenendo superfluo tutto quanto non vi rientra equivale a depredare. Mi ricorda quel racconto (probabilmente leggendario) sull'incendio dei libri della Biblioteca di Alessandria da parte del Califfo Omar che si dice affermò: "In quei libri o ci sono cose già presenti nel Corano, o ci sono cose che del Corano non fanno parte: se sono presenti nel Corano sono inutili, se non sono presenti allora sono dannose e vanno distrutte".

venerdì 16 ottobre 2009

Freddo fuori, luce dentro.


I cambiamenti di stagione sono eventi meravigliosi, che non coinvolgono soltanto la nostra esperienza della luce e del buio, del calore o del freddo, della siccità o dell'umidità, né sono soltanto in relazione con alimentazione, lavoro, vacanze e festività, spostamenti, maglioni e indumenti, la moda e via dicendo. Intendo dire che, oltre a tutte le cose nominate e a tante altre riguardanti il nostro rapporto con l'ambiente, con la vita di relazione e con noi stessi, c'è anche l'esperienza spirituale delle stagioni, esiste una relazione molto intima con il ciclo annuale di cui siamo, normalmente, poco coscienti - presi da un'affaccendata quotidianità che lascia poco tempo per osservare a fondo le nostre sensazioni interiori, le trasformazioni del nostro "cuore" collegate con il trascorrere stagionale.


La comparsa del freddo di questi giorni, l'affacciarsi dell'autunno e il preannuncio dell'inverno, forse anche per il contrasto con la appena trascorsa e caldissima estate, costituiscono per me una esperienza spirituale viva, quest'anno più che altri. E' qualcosa che percepivo in maniera particolarmente vivida da ragazzo, quando il clima autunnale mi dava sensazioni di felicità e di "novità" che, poi, gradualmente si sono affievolite, per lasciare il posto ad una leggera tristezza e al rimpianto per la "bella" stagione passata. La comprensibile riluttanza ad accettare l'autunno, però, spesso non ci fa rendere conto della bellezza tipica di questo momento annuale, non ci fa apprezzare i colori straordinari e intensi della vegetazione simili a quelli del sole al tramonto, i cieli tersi e gelidi dell'ambiente naturale e, soprattutto, quel senso di ripiegamento su sé stessi, sul proprio cuore. Il freddo, l'oscurità sopraggiungente, l'atmosfera talvolta cupa, la pioggia, interrompono la manifestazione evidente della vita e dell'attività al di fuori di noi - il calore, la luce. L'ambiente non sollecita più la nostra partecipazione, il godimento e il rilassamento, il piacere del nostro essere presenti nel mondo con il corpo; piuttosto induce a chiudere, a ritirare, a proteggere, a non manifestare esteriormente la vita, ma a cercarla all'interno - non nella parte corporea ed esteriore, ma in quella spirituale e interiore. La luce, il calore e il colore cominciano a farsi percepire dentro, e tendono a portare una gioia interna, una vivacità gioiosa dello spirito.

Naturalmente si tratta di osservazioni e percezioni personali, che tuttavia si possono confermare almeno in parte facendo riferimento alle culture umane, alle festività autunnali e invernali della tradizione, allo Yin e allo Yang. Io riassumerei tutto ciò, in definitiva, in questa semplice frase: freddo fuori, luce dentro.

martedì 13 ottobre 2009

Nuovo, vecchio "taccuino degli appunti".




Sto trasferendo qui il mio Blog "taccuino degli appunti", sul quale scrivo dal 2005. Lo spostamento è dovuto a problemi sia tecnici (la mia apparecchiatura PC non "gradisce" molto l'altro indirizzo http://taccuinodegliappunti.blog.tiscali.it/) sia di omogeneità organizzativa, perché gli altri miei dodici Blog sono qui su Blogger. Per questi motivi ho pensato di spostare tutto, anche l'archivio dei post passati e i relativi preziosi commenti che i gentili lettori e amici hanno lasciato. L'ho fatto in maniera molto artigianale, direi quasi a mano, vista la mia scarsa perizia con i sistemi informatici: forse avrei potuto importare tutto quanto con più efficienza, precisione e velocità... ma spero vada bene anche così!

venerdì 9 ottobre 2009

L'uomo collettivo


Immaginiamo un "uomo qualunque", ma uno talmente qualunque da aver raggiunto il successo e, soprattutto, essere diventato ricco pur rimanendo uno qualunque. Le sue opinioni sono dozzinali, collettive, di massa. I suoi divertimenti, le sue battute scherzose altrettanto. La morale è quella standard, come pure la sistematica violazione di essa - standard! E' facile identificarsi in lui, è facile difenderlo: basta non pensare, basta non avere una individualità, ma vivere soltanto negli stadi calcisitici e appesi all'informazione televisiva più plastificata e pubblicitaria. Basta provare quel fastidio sottile rispetto all'indipendenza, alla profondità, a quel genere di libertà che deriva dal rispetto per sé stessi, gli altri e il mondo. Quel genere di libertà è difficile da perseguire perché non è precostituita, non ha sovrastrutture, è responsabile, richiede impegno individuale e, soprattutto, non è arbitrio.


Qualora un Paese arrivasse ad una tale crisi di valori, di pensiero e di indipendenza da non essere più capace di intravvedere un futuro basato sulla responsabilità di ogni singolo componente della società, sull'unità nella diversità, allora tale Paese potrebbe offrire le più alte responsabilità politiche, di governo e guida dell Stato a quell'Uomo Collettivo di cui parliamo. Perché è ricco, perché ha successo nonostante la sua superficialità o, forse, grazie ad essa. Ognuno può identificarsi in lui, può concepire una libertà senza sforzo, irresponsabile, una felicità come quella che si vagheggia giocando la schedina o al lotto.


L'esercizio del potere dell'Uomo Collettivo e senza qualità, di quell'uomo-solo-quantità, oscillerebbe dal gesto di facile sentimentalismo alla dura violenza originata dal giudizio aprioristico, sempre senza mai sfiorare un pensiero indipendente e autonomo, ma soltanto quello degli slogan pubblicitari - compresi quelli di tono moralistico. La sua abilità nell'avere e la sua assenza nell'essere, il suo incarnare solo la quantità e mai la qualità, potrebbe perfino essere scambiato per genio, per innovazione, per simpatica eccentricità.


L'Uomo Collettivo, in realtà, esprime una speranza, un ideale, un desiderio di molti: la realizzazione della felicità senza lavorare su sé stessi, senza mettersi in discussione, senza cambiare, senza affrontare la solitudine del dubbio salvifico, rimanendo abbarbicati al passato, alle sicurezza, ai propri piccoli o grandi privilegi. Da qui il suo successo. Tramonterà soltanto quando la "massa" più o meno organizzata e più o meno passivamente gerarchizzata delle persone saprà trasmutarsi in una società di individui veri, differenti fra loro, non spaventati dalle reciproche diversità, ma capaci di essere responsabili e collaborativi.

sabato 25 luglio 2009

Lourdes e la Dea Bianca.


A Lourdes ha avuto luogo nel 1858, quindi in era moderna, l'evento forse più rappresentativo ed emblematico nell'ambito delle apparizioni mariane: la veggente Bernadette Soubirous è l'antesignana dei pastorelli di Fatima e dei ragazzi di Medjugorje. Bernardette vede una Signora vestita di bianco e dall'apparente età di 16 o 17 anni. Non la identifica subito come la Beata Vergine, nonostante le ripetute indagini e pressioni da parte della Chiesa e dell'opinione pubblica. Poco tempo prima, nel 1854, il papa Pio IX aveva proclamato il dogma della Immacolata Concezione, e sarà con questo appellativo che, alla fine, l'apparizione di Lourdes verrà identificata. Bernardette, in realtà, è una persona buona, semplice e senza cultura - neanche cattolica, a parte alcuni semplici rudimenti di catechismo. Nella sua ingenuità vede una Signora che le dona, con la sua straordinaria presenza, gioia e felicità. Purtroppo l'organizzazione religiosa e la società civile dell'epoca sottoporranno la fanciulla a notevoli stress, agendo in maniera molto invasiva al fine di determinare la natura dell'apparizione alla grotta di Massabielle e della relativa trance: se di natura divina o demoniaca, se manifestazione della Madre di Dio, eccetera. L'impressione che se ne ricava è che un fenomeno puro, interiore, venga in qualche modo adattato alle conoscenze e alla religione dell'epoca - cosa del resto perfettamente comprensibile, perché gli uomini hanno bisogno di capire e interpretare secondo il loro punto di vista.

Fatto sta che la "Signora vestita di bianco" non è soltanto appannaggio della tradizione cattolica, bensì la travalica ampiamente ed è conosciuta in tutto il mondo, sotto tutte le latitudini, epoche e culture: la si potrebbe chiamare - col mitologo Robert Graves - la "Dea Bianca": la troviamo nelle visualizzazioni dei mistici buddisti cinesi come Kuan Shi Yin, in Giappone come Amaterasu, in India come Maha-Lakshmi o Saraswati, in Tibet come la Tara Bianca, ovunque come la Grande Madre, la Luna, la Natura, l'Acqua. Dappertutto dispensa conforto, guarisce, conferisce aiuto, serenità, nutrimento e illuminazione.

Certamente tutto ciò non priva né di valore né di significato il punto di vista cattolico; semmai lo amplia, fino a far riconoscere la presenza di un archetipo molto più vasto di una singola confessione religiosa, presente ovunque e da sempre, e variamente interpretato o identificato a seconda di ogni etnia e mentalità. Forse ciò dimostra che lo spirito umano e l'esperienza numinosa del trascendente sono cose uniche, appartenenti al patrimonio interiore di tutta l'umanità.

lunedì 15 giugno 2009

L'Italia s'è destra. E anche l'Europa.


Bene, dopo il voto europeo e quello amministrativo in certe province, ci siamo svegliati in un'Italia molto più conservatrice, e anche in un'Europa con la stessa tendenza. Ma che cosa la coscienza collettiva vuole "conservare", ché vuole difendere o ristabilire? Di solito si parla di "valori" - per lo più antropocentrici: la casa, la famiglia, la morale, l'economia. Eppure il mondo è in costante mutamento: un'epoca nuova si avvicina, diversa da ogni altra, anche perché le sfide sono oggi senza precedenti rispetto alla storia conosciuta dell'umanità: una molteplicità di culture che ormai devono necessariamente comunicare e convivere, un ecosistema sempre più a rischio, il fallimento della finanza "creativa" con la gravissima crisi economica mondiale, il crollo del comunismo e del capitalismo, eccetera. Certo, di fronte al buio, davanti ad un abisso, che cosa si fa di solito? Si cerca di proteggersi, di andare sul sicuro, e se possibile di tornare indietro. Giusto, anzi, giustissimo. Però siamo certi che di fronte a sfide nuove e senza precedenti non siano invece necessarie soluzioni innovative e altrettanto senza precedenti? L'America, oggi, dopo gli anni di esperienza conservatrice che hanno contribuito all'attuale crisi mondiale, vuole tentare diversamente, aprire a nuovi modelli di pensiero e di azione. L'Europa no, e in questo torna ad essere il "vecchio continente". Se la devo proprio dire tutta (e lasciatemelo fare: è soltanto la mia opinione, innocua e personalissima) io credo che noi europei siamo in una fase fortemente involutiva e che ciò avvenga perché non sappiamo immaginare un futuro, ci siamo "materialisticizzati", solidificati, chiusi per paura di essere spazzati via; eppure non è detto che l'incertezza che abbiamo di fronte nasconda per forza un pericolo, una disgregazione. Anzi: potrebbe esserci un tesoro nascosto, una possibilità insospettata, una luce più grande. In Europa, però, non ci si crede, si preferisce la prudenza, il ritorno indietro al già noto e acquisito - senza accorgersi che in realtà è proprio questo ciò che sta franando, fallendo, che si sta disgregando, e quindi l'ondata di conservatorismo in questo momento storico equivale ad un rifiuto della realtà. In linguaggio buddista, prendendone a prestito la concettualità, direi che prevalgono i "tre veleni": avidità, paura e aggressività. Sono questi tre che muovono l'opinione collettiva odierna, non certo gli slanci ideali o l'intelligenza dei problemi da affrontare. Avidità, paura e aggressività: i cavalli di battaglia dei profeti del ritorno indietro, della classe dirigente falsamente moralizzatrice e protezionistica, dei politici del miraggio pubblicitario. Senza il coraggio, la saggezza e la compassione (quelli veri, non quelli dichiarati a parole - quelli che ispirano azioni reali e conseguenti) come si può sperare di vivere in modo equilibrato affrontando davvero e per il bene di tutti le sfide dell'esistenza?

giovedì 16 aprile 2009

Il Sutra del Loto


Ho deciso di aprire un ulteriore blog per riflettere e scrivere appunti su un altro grande testo della tradizione orientale: il Sutra del Loto. Si tratta di un testo molto importante, origine e fondamento della pratica che io stesso seguo. Il mito o la leggenda vuole che in esso sia contenuto l'insegnamento definitivo del Buddha Shakyamuni, quello da lui impartito prima della morte, negli ultimi otto anni della sua predicazione. Probabilmente il fondamento di questa asserzione sta nel fatto che le rivelazioni contenute nel Sutra del Loto sono particolarmente nuove e rivoluzionarie rispetto agli altri insegnamenti buddisti che, comunque, ne costituiscono il presupposto logico e dialettico.