martedì 10 novembre 2009

Lo Zen Rinzai e l'uso dei koan.




Esistono due grandi tradizioni all'interno del buddhismo Zen: la Rinzai e la Soto. La prima deriva direttamente da una scuola di meditazione del buddhismo cinese, poi introdotta in Giappone nel XII secolo. La seconda fu fondata dal Maestro giapponese Dogen, ordinato monaco e poi recatosi in Cina per approfondire la ricerca personale degli insegnamenti del Buddha; ricerca di cui, successivamente, riportò in patria gli esiti. Un detto giapponese recita: "La Rinzai per lo Shogun, la Soto per i contadini", perché effettivamente la prima impostazione - dallo spirito severo e marziale - prese piede soprattutto negli ambienti dei governatorati militari di Kamakura del XIII secolo, mentre la seconda - forse più "rustica" e meno affilata - si diffuse prevalentemente fra la gente semplice, del popolo. Ulteriore differenza fra le due scuole sta nel fatto che la Rinzai affianca alla pratica della meditazione zazen (seduta), alla lettura dei Sutra e ai mantra cerimoniali anche l'uso dei koan, mentre la Soto non si avvale di questi ultimi come oggetto di meditazione, oppure lo fa in misura decisamente inferiore, prediligendo lo zazen puro e semplice. Che cosa sono i koan? Generalmente si tratta di aneddoti, storie, affermazioni o domande dalle caratteristiche enigmatiche e paradossali, non comprensibili o risolvibili con l'aiuto della logica e della razionalità. La comprensione dei koan necessita invece dell'intuizione e della percezione diretta della realtà, ed equivale ad una sorta di apertura interiore e ad un superamento della mente concettuale, tale da poter coincidere in tutto o anche solo in parte con l'Illuminazione. L'Occidente rimase affascinato dall'uso che lo Zen fa dei koan allorché ci fu il primo evidente incontro fa la cultura rivoluzionaria che si andava sviluppando in Europa e negli Stati Uniti e le filosofie orientali: gli indovinelli dello Zen apparivano come delle divertenti, intriganti e affascinanti sfide alle concettualizzazioni tradizionali, e vennero ben accolti in quell'atmosfera di ricerca e di sperimentazione liberatoria che dilagò nella società e fra i giovani degli anni 60 e 70 del secolo appena trascorso. Tuttavia non bisogna dimenticare che il koan propriamente inteso ha il suo fondamento in particolari pratiche meditative e in un corpus filosofico-dottrinario di cui rappresenta un ulteriore strumento e completamento. Sarebbe quindi fuorviante cercare di comprendere lo Zen identificandolo soltanto con i koan e la connessa letteratura, perchè c'è molto altro da valutare e da sperimentare, essendo poi il buddhismo un percorso eminentemente esperienziale. Ad ogni modo, a me sembra che il senso principale dei koan - così come può apparire in una raccolta di essi come il Mumonkan, la "Porta-senza-porta" - stia nell'indicazione di abbandonare il pensiero concettuale, di andare oltre, perché il pensiero è una schematizzazione, una gabbia, rispetto al fluire della vita e della realtà sempre mutevoli e mai del tutto definibili. Da questo punto di vista la ricerca dell'Illuminazione non è tanto quella che costruisce ulteriori concetti, limitazioni e dogmatismi nell'ambito della conoscenza del divino, di sé stessi o della realtà, quanto piuttosto quella che ingenera un decondizionamento, un'apertura della coscienza in senso liberatorio. Detto ciò, e riconosciuto il profondo valore di questo tipo di visione, devo tuttavia esprimere alcune perplessità rispetto al buddhismo Zen. Non me ne vogliano i seguaci di questa disciplina, sono soltanto mie impressioni personali, con i limiti che ne derivano (forse, proprio come dice lo Zen a proposito degli stolti, invece di guardare la luna, guardo il dito che la indica)! Prima di tutto, trattandosi comunque di una concezione - come è anche naturale che sia - mi sembra che il fatto di abbracciarla e seguirla tenda a negare nei fatti quanto le continue affermazioni anticoncettuali sembrano voler indicare: cioè si segue una visione, un'idea, un'elaborazione della mente, al punto da costruire una vita monastica, l'obbedienza ad un maestro e alle sue norme o, comunque, l'adesione ad una disciplina spesso molto severa e strutturata. Poi, probabilmente influenzato dalla mia ottica di occidentale, devo confessare una curiosa ma decisa impressione rispetto alla tematica e allo stile dei koan: quella di una sorta di iperconcettualismo piuttosto che di una sua assenza, anzi, di un intricato gusto del paradosso di tipo... squisitamente cerebrale! Può una tale cerebralità originare da quel silenzio mentale e da quell'adesione della mente e del cuore all'Assoluto che si vogliono indicare ed insegnare? Beh, questa domanda... è un pò il mio koan!

2 commenti:

  1. Caro Maurizio,

    avrebbe forse detto Rudolf Steiner che dal pensiero creativo si condivide la fratellanza divina con il creatore di tutte le cose.

    Ecco allora che il tuo koan zen potrebbe trovare un aggancio di soluzione al fatto che una sincera adesione della mente e del cuore all'Assoluto potrebbe anche significare un contatto diretto con la propria parte spirituale individuale, parte spirituale che si nutre e si fonda proprio sul pensiero.

    Il grande mistero dell'attività cerebrale, l'errore tante volte compiuto da scienziati bendati (la scienza tradizionale accademica di oggi ancora non ha scoperto i giusti strumenti di indagine del pensiero umano) che hanno scambiato il cervello umano da effetto a causa, da strumento ad attore primo.

    Complimenti per la nuova veste del tuo blog, che continuerò a seguire con interesse. Ciao.

    Marco Don

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  2. Carissimo Marco, sono con te nel sostenere che il pensiero è uno strumento meraviglioso, che fonda - se correttamente usato - nella nostra spiritualità. L'impressione che ho è che talvolta il pensiero indulga in una sorta di narcisismo auto-erotico, come talvolta sembra che accada in certe derive della filosofia.

    Lo Zen asserisce che per lasciar intravvedere l'Assoluto il pensiero deve acquietarsi, deve entrare nel silenzio, così che possa manifestarsi qualcosa di più profondo. Il mio dubbio è che, nell'asserire questo, lo Zen stesso possa diventare molto cerebrale, nel senso dello stallo auto-celebrativo. I Maestri Zen non fanno altro che mettere in guardia i discepoli su questo aspetto, e lo fanno in modo bizzarro: sembrano usare la mente non tanto nel senso steineriano, bensì più o meno nella maniera che gli antichi greci definivano "sofisma"...

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