giovedì 11 novembre 2010

Era meglio prima?


Mi capita frequentemente di imbattermi nell'opinione che le cose andassero meglio nei tempi passati, socialmente e culturalmente, nei comportamenti, nel costume, nelle ideologie, nella visione del mondo. Chi esprime questa opinione nota che oggi esiste una crisi di valori, specialmente nei giovani, ma anche in generale. Ritiene che ci sia un degrado nei comportamenti ovunque, che non ci sia più serietà, che non ci sia più responsabilità. Qualcuno collega questo fenomeno ad una assenza di religione, che non viene più sentita e osservata. Queste persone, che in genere sono di mezza età o più - ricordando i tempi trascorsi e nonostante i difetti che da giovani, all'epoca, avevano riconosciuto in chi governava, in chi aveva posizioni di potere o di conoscenza nella società o nella famiglia, e contro i quali aveva magari protestato - oggi prova rimpianto: pensa che le cose andassero tutto sommato molto meglio, che ci fosse coesione sociale, che ci fosse una sincera ricerca di miglioramento, che i ruoli fossero importanti e rispettati, che si potesse concepire un futuro, cosa attualmente molto più confusa, complessa e incerta. Devo dire che queste osservazioni sembrano anche a me abbastanza calzanti e che si possa condividerle, perché la situazione mondiale adesso sembra veramente senza precedenti: lo smarrimento può prevalere, i problemi collettivi, ambientali, sociali possono sovrastarci in una maniera che non si è mai verificata, in nessuna epoca, con analoga potenzialità distruttiva. E' vero anche che la religione tradizionale, soppiantata durante il secolo scorso con le "fedi" politiche e ideologiche del comunismo o del nazionalismo, ora non trova più neanche nelle ideologie una sostituzione, e che rimane un vuoto di speranza oppure la tendenza a rifugiarsi nei fondamentalismi, nelle etnie, nelle ottuse divisioni. Non voglio, però, indugiare nel descrivere ancora i nostri tempi e le problematiche correlate, che sono tante e forse di difficile comprensione. Quello che voglio dire è che, quando sento i discorsi di quelli che dichiarano che "era meglio prima", stranamente, nonostante capisca e condivida molto di quanto affermano, non riesco ad essere della loro stessa idea, non mi sembra proprio vero che una volta il mondo fosse migliore. Credo invece che questo sia un errore diffuso, una specie di "errore di parallasse" nel punto di vista di chi fa questo tipo di osservazioni. Provo a spiegarmi meglio:
1. non si può negare che la sensazione che un tempo esistessero valori oggi perduti e che si stesse più o meno bene, che i giovani siano confusi o peggio, ecc., sia propria ad ogni epoca. I genitori o gli anziani hanno sempre avuto l'impressione che le giovani generazioni non fossero all'altezza, che fossero mancanti di raziocinio, sbandate, senza ideali. Io, che ho 52 anni, ricordo questa opinione in coloro che mi hanno preceduto e che, quando ero un ragazzo, mal comprendevano i miei pensieri e comportamenti. Anzi, in qualità di giovane, ero molto critico verso la cultura e la società allora esistente e che rappresentava, per me, valori vecchi e superabili. Lo scontro generazionale può essere più o meno marcato, può variare nelle varie epoche in intensità, può essere più o meno espresso o represso, ma esiste. Gli anziani, inoltre, hanno la tendenza a rimpiangere ciò che è trascorso e a non comprendere l'attuale. Se leggiamo resoconti del XIX secolo o dell'epoca romana o di altre fasi storiche, possiamo ritrovare queste stesse modalità: esse sono un cliché, addirittura un archetipo.
2. Secondo la psicologia, la fase prenatale e intrauterina e anche il rapporto infantile con la madre sono esperienze che rimangono profondamente incise nell'inconscio e influenzano in vario modo tutta la nostra vita. Si tratta di elementi affettivi e anche simbolici che - secondo Freud -sarebbero perfino alla base della religiosità, con il suo desiderio di abbandono e di totalità. Se davvero nel nostro inconscio abbiamo questo, se sottilmente percepiamo nel nostro passato un'epoca di calore, sicurezza, beatitudine, dobbiamo forse meravigliarci del suo affiorare in età matura, quando le forze fisiche declinano e il nostro futuro si assottiglia, quando entriamo nella fase in cui nel cuore percepiamo il confronto con le cose che finiscono, con la morte? Il sentire che "era meglio prima" potrebbe in realtà nascondere il rimpianto per la condizione infantile e addirittura per quella pre-natale, fonti di soddisfazione e sicurezza che la psicologia ritiene irripetibili. Anche con una semplice riflessione di senso comune, inoltre, possiamo notare che "quando le cose andavano meglio" eravamo in una fase diversa della nostra vita individuale: avevamo una visione più flessibile e meno strutturata, meno condizionata dall'esperienza, avevamo più futuro e maggiore vitalità. La rivalutazione del passato e la critica dell'attuale, dunque, pur essendo rivolte alla situazione sociale e ambientale, in realtà riguarderebbero principalmente noi stessi e il nostro modo di percepirci.
3. C'è un mito che fa parte, per così dire, dell'inconscio dell'umanità e affonda nella notte dei tempi: è quello dell'Età dell'Oro. Esiste pressocché in tutte le culture e in tutte le tradizioni questa idea di un paradiso perduto, di un'era di felicità e saggezza, di una civiltà superiore ora scomparsa. Prescindendo dalle anzidette considerazioni psicanalitiche, che potrebbero sottostare anche a questa concezione, e dando credibilità all'idea che un tempo - in un'epoca di cui la storia che conosciamo non conserva che flebili tracce - esistesse veramente un mondo migliore e una civiltà più evoluta della nostra, possiamo ipotizzare che dentro di noi, collettivamente, ne portiamo ancora il ricordo. Tale mito vive nel nostro profondo e, quando attraversiamo tempi difficili, di crisi, di oscurità, così frequenti nella storia dell'uomo, esso affiora con potenza dandoci la precisa sensazione che prima le cose andassero meglio, che le persone fossero più sagge, eccetera. In realtà ci riferiamo, inconsciamente, non al periodo che abbiamo vissuto precedentemente e personalmente, ma ad un evento molto più remoto, patrimonio ancestrale dell'umanità...
Concludo con un'ultima considerazione: io non vorrei ritornare indietro. Anche l'epoca della mia infanzia e giovinezza, in fondo, non mi sembra così accattivante. Sarebbe terribile doversi confrontare con la stessa cultura, certe chiusure mentali e sociali, una certa ristrettezza di condizioni familiari, educative e di costume. Per carità! E ancora peggio sarebbe tornare nell'Ottocento, con le sue insurrezioni, i suoi dolorosi tentativi di liberazione e unificazione, e poi, via via più indietro, Settecento, Seicento, Medioevo, Antichità, durante le inquisizioni, le torture, i fanatismi e i dogmatismi, le guerre e le discriminazioni sociali e religiose che hanno sempre caratterizzato la storia dell'uomo. No, amici miei, non ci sto. Personalmente ritengo che... è senz'altro meglio oggi, sia pure con tutti i problemi che dobbiamo affrontare mi sento più libero, ho la possibilità di essere me stesso! Il mondo che viviamo, in realtà, è meraviglioso, fantastico, senza precedenti, e credo proprio che, se riusciamo a superare certi ostacoli, domani lo sarà ancora di più! Stiamo seguendo una direzione evolutiva, lenta ma inesorabile. Perché tornare indietro? Anch'essa presente nei miti, esiste un'altra Età dell'Oro: quella che ci attende, quella che sapremo costruire con saggezza e responsabilità a cominciare da ora per andare verso il futuro...

mercoledì 10 novembre 2010

I tre veleni


Osservando quanto avviene in questi giorni in Italia e nel mondo nell'ambito della politica, della società, nella cronaca, nel costume, mi sovviene un calzante concetto della tradizione buddista, quello dei tre veleni. Nella nostra mente esistono dei fattori inquinanti che nel buddismo vengono paragonati a sostanze venefiche che uccidono la pace, distruggono la serenità di spirito e la chiara visione delle cose, ottundono la sensibilità e ottenebrano la comprensione trascinando verso la sofferenza, il conflitto e via dicendo... Essi sono identificati come avidità, stupidità e collera.
L'avidità è l'insoddisfazione profonda che spinge a cercare continuamente di riempire il vuoto interiore con esperienze, oggetti, acquisizioni di vario tipo che, però, non bastano, non sono sufficienti a dare un vero appagamento. E' un pò il background consumistico che sostiene la nostra società, quello su cui fonda la nostra economia e su cui fa leva la pubblicità. Se non ci fossero bisogni, desideri... bisognerebbe inventarli, ed è infatti proprio questo il mestiere del pubblicitario, del venditore di professione. Anche il politico fa leva sull'insoddisfazione, che spesso è fondata su reali necessità e giuste motivazioni, prospettando facili soluzioni o scenari allettanti. D'altra parte se l'avidità può essere un veleno, in giuste dosi è il motore di qualsiasi ricerca, movimento e vitalità. Senza desiderio non ci sarebbe prospettiva, direzione, sforzo, non ci si metterebbe mai in discussione. Nelle giuste dosi ogni veleno può essere medicina, e viceversa! A livello sociale, sempre secondo il buddismo, il veleno dell'avidità produce la crisi economica.
La stupidità è la caratteristica di una mente chiusa, ignorante di qualsiasi cosa che non sia l'impulso del momento. L'istinto, anch'esso così importante nella nostra vita, anch'esso fondamentale per il suo sostegno, può essere un potente fattore negativo quando ottenebra la ragione e la sensibilità. Qualsiasi azione compiuta senza prevedere o preoccuparsi delle conseguenze, ma obbedendo soltanto ad una cieca impulsività, è sostanzialmente stupida. Quando ci si comporta come bestie (facendo salvi gli animali, che hanno una loro integrità e dignità), quando ci si fa trascinare dal branco, allora si è intossicati da una stupida ignoranza. Socialmente il buddismo identifica nelle epidemie le conseguenze della stupidità. Il contagio collettivo può riguardare vere e proprie malattie e piaghe sociali, come anche la trasmissione di virus psichici, di gruppo, quelli che coinvolgono le folle.
La collera non è soltanto la rabbia in senso stretto - che dal punto di vista positivo è determinazione, lotta contro l'ingiustizia - ma implica la svalutazione dell'altro da sé, la sopraffazione, il voler essere superiori e vincenti con qualsiasi mezzo. Questa sorta di egoismo fonda sull'insicurezza, sul bisogno di eliminare o sconfiggere gli altri per sentirsi forti, potenti, importanti. E' un veleno ben riconoscibile ovunque prevalga l'ambizione, l'avversione, la differenziazione violenta, la mancanza di considerazione. E' spesso riscontrabile nei posti di lavoro e dove impera il cosiddetto principio del mors tua vita mea, per esempio in politica. Il buddismo riconosce nel veleno della collera la radice di ciò che è conflittualità e che in senso sociale e collettivo genera la guerra.
Il buddismo prospetta anche degli antidoti, consistenti essenzialmente nella coltivazione degli aspetti positivi insiti comunque negli stati mentali descritti, nella consapevolezza di essi e, soprattutto, nella ricerca dell'illuminazione - cioè di una vera felicità non condizionata da fattori esterni. Questo, però, è un discorso ulteriore rispetto al riconoscimento dei tre veleni in noi stessi e nel nostro ambiente, e varrebbe la pena di approfondirlo...

venerdì 29 ottobre 2010

Halloween e le celebrazioni tradizionali.



Eccoci di nuovo giunti in prossimità della festività di Ognissanti, ormai nota anche in Italia come Halloween. E' una festività che unisce in sé la celebrazione di tutti-i-santi (all-of-them, oppure all-hallows-even = halloween) con quella dei defunti e quindi, in un certo qual modo, rappresenta l'incontro dei vivi con i morti. E' anche la morte della bella stagione: si va incontro al buio, al freddo, ai mesi "tenebrosi", alla notte del ciclo annuale e agricolo. Per questo motivo l'immaginario antico e tradizionale, ma anche quello moderno, ha elaborato questo incontro con l'oscurità e con l'aldilà sia attraverso rituali religiosi, che mediante cerimonie popolari, carnevalesche, con travestimenti gotici e grotteschi per rappresentare spiriti, folletti, mostri, zombi e via dicendo. La cosa interessante è che, quasi a nostra insaputa, noi esseri umani continuiamo a celebrare la nostra profonda unione con la natura, con i suoi cicli e le sue trasformazioni. E' sorprendente che, sia pure nella nostra maniera globalizzata e mercantilizzata, noi uomini "moderni" conserviamo traccia di un'antica saggezza, di un'attenta osservazione della natura che ormai quasi non ci appartiene più. Quindi ripercorriamo ancora, forse per mera abitudine, le antichissime festività autunnali, come l'attuale, e poi quelle del solstizio d'inverno (il Natale e il Capodanno), quelle che celebrano il ritorno delle nuove luci, delle nuove forze primaverili (il Carnevale), quelle dell'inizio della bella stagione e della vittoria sul freddo e l'oscurità (la Pasqua) e via dicendo. Sono tutte feste rielaborate, riadattate a seconda delle religioni dominanti o dell'attuale a-religiosità consumistico-edonistica, però continuano ad esistere, continuano a far sentire - magari inconsciamente - la loro presenza, il loro significato. Quale significato? Al di là dei singoli momenti del ciclo naturale e annuale, al di là del senso delle singole fasi stagionali, quello che si ritualizza è il profondo legame esistente fra macrocosmo e microcosmo, fra universo e uomo. Le antiche culture riproducevano nel rito il processo della natura per innescare dentro se stesse la medesima trasformazione, la medesima morte e rinascita, per chiarire a sé stesse il proprio percorso interiore, ciclico ed evolutivo, che è anche e soprattutto un percorso individuale oltre che collettivo e cosmico. Siamo oggi ancora all'altezza delle profonde intuizioni della Tradizione, di una cultura superiore che affonda nella notte dei tempi e che, probabilmente, travalica anche le nostre attuali conoscenze storiche? Forse sì, perché gradualmente, pian pianino, le stiamo finalmente riscoprendo in noi stessi.

venerdì 17 settembre 2010

Settembre.


Dopo le vacanze estive, il gran caldo, i grandi esodi e i grandi rientri ecco che riprendono le consuete attività - quelle che un pò ci eravamo lasciati dietro, gli impegni che si erano diradati o erano stati sospesi, insomma la vita normale. Anche se qualcuno può concedersi una pausa settembrina, un viaggio o simili, rimane il fatto che l'estate è finita o sta finendo, il ritmo delle cose è differente, entriamo in una diversa stagione. Personalmente trovo interessante e sorprendente notare come muti la nostra sensibilità, il modo stesso di percepire la vita, nel corso del ciclo annuale. Non è un fatto teorico o superficiale, di poco conto, no! Si tratta di qualcosa di molto concreto: in primavera "sentiamo" in un certo modo, in estate, e poi in autunno e in inverno le cose cambiano ancora, come se conducessimo vite completamente differenti, come se facessimo un percorso che ci conduce attraverso diversi paesaggi. Stando molto attenti, possiamo accorgerci che non solo esistono differenze di percezione in dipendenza delle quattro stagioni, ma esistono anche le sfumature intermedie, le piccole differenze di gradazione, per le quali - ad esempio - settembre è diverso da ottobre, e quest'ultimo da novembre. Probabilmente gli inventori dei calendari, cioè della suddivisione dell'anno solare in grandi e piccole classificazioni temporali, erano nel giusto e non hanno seguito una logica arbitraria, un semplice codice culturale astratto, bensì hanno codificato qualcosa che realmente risulta al punto di vista e alla sensibilità umana. Queste considerazioni mi fanno anche pensare che l'astrologia, la scienza e la medicina antiche fossero - oltre che intimamente connesse fra di loro - collegate con acute osservazioni sulla natura dell'ambiente e dell'uomo. Primitive forme di "cronopsicologia" e di "cronobiologia"? Direi proprio di sì, anche se ho il dubbio che, in questo caso, "primitivo" non significhi affatto "inevoluto", "infantile" o simili, anzi... Potrebbe invece indicare, a dispetto del riduttivismo tipico della nostra attuale scienza, una sensibile e ponderata forma di conoscenza e di ricerca, capace di condensare nelle sue osservazioni filosofia e percezione, mistero e quotidianità, straordinarietà e consuetudine, soggetto e oggetto, osservatore e cosa osservata, universale e particolare.

venerdì 23 luglio 2010

Sull'estate: alcuni pensieri in libertà.


L'estate torrida e afosa, per certi versi oppressiva con la sua bollente umidità, trascorre lentamente, ci avvolge e ci sovrasta - sembra d'essere in una grande vasca d'acqua calda, sembra di galleggiaci dentro muovendosi con difficoltà e pesantezza. Certo, direte voi, questa è una visione piuttosto negativa di uno dei periodi più belli dell'anno, quello delle vacanze e del sole, della libertà e della leggerezza. Beh, dico io, si tratta di punti di vista, tutti veri, tutti aspetti reali della stagione che stiamo vivendo. E' vero che l'estate è bellissima, che le sue sere sono magiche, le riunioni con gli amici, la pizza, il cocomero, le stelle, il mare... In effetti tutti i momenti della nostra esistenza sono meravigliosi, insostituibili, ognuno ha una ragion d'essere e porta con sé sensazioni, profumi, emozioni e gioie; però anche difficoltà e sofferenza, stanchezza, scoraggiamento. Il piacere e il dolore sono le due facce della vita, sempre presenti, alternativamente o anche simultaneamente essi colorano la nostra esperienza. E' bello viverli pienamente, non rifiutare nulla, neanche la sofferenza - perché essa dà senso al sollievo, al refrigerio, alla comprensione e alla condivisione. Senza gli opposti non ci sarebbe vita: estate e inverno, giorno e notte, razionalità e sentimento, uomo e donna, piacere e dolore.
Per tornare all'estate, essendo un momento climatico estremo (pari a quello dell'intenso freddo invernale), entrano in gioco le nostre capacità di adattamento. Gli esseri viventi, gli organismi biologici sono adattabili, cercano costantemente l'equilibrio - con ogni mezzo. Se fa troppo caldo si cerca il fresco, viceversa se fa troppo freddo. Cerchiamo continuamente di compensare, di tendere alla via di mezzo, la sola che consenta il benessere e spesso anche la sopravvivenza. Questo per ciò che riguarda l'adattamento all'ambiente esterno. Anche per ciò che riguarda l'intimo, l'interiorità, la psiche, è la stessa cosa - la ricerca dell'equilibrio, del superamento degli opposti, la pacificazione, la Via di Mezzo...
Rimane comunque la nostra attuale estate calda e umida alla quale sopravvivere, questo brodo primordiale che ci avvolge con la sua sovrabbondanza creativa di stimoli, di apparenti possibilità, con questo amalgama colloidale di politica, col polpettone di economia, di disastri ambientali, di pubblicità, di amorfità televisiva, di appiccicosa melma psicocollettiva. La soluzione? Un bel condizionatore, un climatizzatore che ci restituisca un ambiente vivibile. Un apparecchio compassionevolmente funzionale che ci ridoni la freschezza dell'entusiasmo e della novità, che ci ridia l'asciuttezza della logica e del rispetto. Un condizionamento virtuoso che finalmente ci abitui alla vera libertà e alla responsabilità individuale e collettiva. Esiste un tale rimedio? Secondo me, sì. E non dobbiamo cercare troppo lontano...

martedì 25 maggio 2010

Un cappello pieno di ciliege


Mi piacerebbe saper dire qualcosa su questo libro, ma prevale in me la sensazione di non potere e di non riuscire - mi sembra di ridurlo, rovinarlo in qualche modo. Il libro bisogna leggerlo, e conferisce un immenso godimento il farlo. In esso si dipana gran parte della nostra storia collettiva dal Settecento in poi, raccontata con l'umanità e la sagacia di Oriana Fallaci. E' il testamento di questa grande scrittrice, il libro che documenta la sua ricerca delle radici, degli antenati, del significato della sua stessa esistenza che - mentre lei scrive - si dirige velocemente verso la morte per malattia (avvenuta nel 2006). Forse proprio la consapevolezza della fine imminente è il retrogusto del romanzo, lo sfondo più vero. Non sta a me dire che cosa Oriana pensasse della morte: lo scrive molto bene lei, come anche descrive benissimo le motivazioni, gli stati interiori che la attraversano nel far rivivere attraverso la sua sensibilità e intuizione quei genitori, nonni, bisnonni e arcavoli che, con le loro vicende, sofferenze, incertezze, vittorie, hanno formato la sua stessa vita, la sua personalità, forse perfino - almeno in parte - il suo destino. Oriana Fallaci, atea convinta, ricostruisce religiosamente la vita che la anima e anche la vita di coloro che misteriosamente sono dentro di lei, nei suoi geni. Li guarda in modo penetrante, onnicomprensivo, veggente. Mi ricorda il Budda quando, in una delle veglie prima dell'Illuminazione, vede tutte le sue vite precedenti e anche quelle di tutti gli esseri viventi. Così Oriana percepisce negli antenati quasi delle sue reincarnazioni passate e arriva paradossalmente a delineare una sorta di dimensione metafisica dalla quale attingerne il ricordo. In fondo, poi, la veggenza del suo passato getta luce anche sul nostro, leggendo ci si sente partecipi, si rivive il periodo napoleonico, le guerre, la povertà dignitosa dei contadini, la sofferenza della gente, il fanatismo politico, il dogmatismo religioso, la rivoluzione industriale, l'avventura di frontiera nel "nuovo mondo" e le mille altre cose che sono nel nostro DNA, quello di noi lettori, perché tutte le "ciliege" del titolo sono anche quelle delle nostre passate vite, dolorose e al tempo stesso gustose, piene di umana saggezza e luminosità.

giovedì 13 maggio 2010

Televisione: gare e televoti.


Ho notato che nella televisione d'intrattenimento esistono due modalità tipiche della maggior parte dei programmi: la gara fra concorrenti e il televoto. Anzi, si potrebbe quasi dire che queste componenti stanno talmente dilagando che tendono ad entrare in qualche modo - anche in piccola parte - in ogni trasmissione. Per esempio anche nelle trasmissioni d'informazione può esserci una partecipazione del pubblico attraverso l'invio di SMS con commenti: non è proprio un televoto... ma qualche analogia c'è! La gara, particolarmente sotto forma di quiz, è quasi nata con la TV: non serve, tanto sono noti, ricordare il "Lascia o raddoppia?" di Mike Bongiorno o il "Musichiere" di Mario Riva, antenati degli attuali format di quiz e, forse, in parte, addirittura dei reality show. Anche un qualsiasi programma musicale è presentato sotto forma di competizione fra cantanti: non solo il festival di Sanremo, ma anche i nuovi prodotti televisivi - perfino quelli riguardanti non la musica leggera ma la lirica, oppure il ballo - sono delle gare, e in tutti c'è - insieme all'opinione della giuria - il decisivo parere dei televotanti. In effetti questo Televoto è il prodotto delle recenti tecnologie e anche di una moderna tendenza a coinvolgere attivamente il pubblico, a non lasciarlo spettatore passivo; dando, inoltre, l'impressione di una vera (o supposta) partecipazione democratica a qualsiasi verdetto, ad ogni decisione. Tale partecipazione può assumere perfino la caratteristica di una contribuzione in denaro - solitamente piccola, di uno o due euro - ad iniziative assistenziali, alla ricerca scientifica, alla beneficenza nelle sue varie forme.
Personalmente, come spettatore, mi viene da riflettere e da interrogarmi su questo proliferare di gare e di competizioni. Possibile che non sia più possibile vedere - ad esempio - un programma di canzoni, magari anche molto godibile di per sé, senza che vi debba essere per forza un giudizio, una giuria, un televoto e un vincitore? Mi chiedo: perché lo fanno? Mi rispondo: probabilmente perché così il programma risulta più interessante, attrae di più. Abbiamo, dunque, dentro di noi questo bisogno di lotta, questo forte desiderio di agonismo simile a quegli antichi spettacoli di massa che si consumavano nei circhi e negli anfiteatri? E al contempo: abbiamo questo bisogno di partecipare attivamente all'esito della competizione, proprio come - ancora una volta - facevano gli antichi romani, quando gli spettatori stessi decretavano la vita o la morte del gladiatore di turno?
Ho posto delle domande, ma non ho risposte certe. Forse siamo davvero di fronte a pulsioni ataviche che si ripropongono attraverso i moderni mezzi tecnologici e la televisione. Sicuramente la vittoria e la sconfitta sono grandi archetipi dell'animo umano. Così anche la collettività, la forza della massa è un archetipo, cui si aggiunge l'esaltazione attuale dell'individualità - della scelta personale, del voto, della libertà del singolo di esprimere una preferenza. Mi pongo ancora una domanda: non siamo forse, ancora una volta, alla caricatura, all'immagine deformata e grottesca della democrazia - che invece non è pulsione, esaltazione dell'io, ma consapevolezza individuale e partecipazione?...

martedì 30 marzo 2010

Giuliano

Altro libro che ho letto recentemente e che mi ha molto interessato è "Giuliano" di Gore Vidal. Questo autore, scrittore e sceneggiatore statunitense (che prese parte anche alla scrittura del famoso film "Ben Hur"), si cimentò nel 1964 con il romanzo storico ambientato nell'antichità classica. Per scriverlo si era documentato per anni studiando presso le biblioteche capitoline, a Roma. Il risultato è un racconto splendido, acuto e molto accurato nell'ambientazione e nei riferimenti storici. Questo romanzo viene spesso accostato a grandi racconti come quello, sicuramente più poetico e struggente, di Marguerite Yourcenar, "Memorie di Adriano", oppure al graffiante e smaliziato "Io, Claudio" di Robert Graves. Si tratta, dunque, di un capolavoro. Quello che soprattutto colpisce, però, è che l'autore abbia voluto affrontare un personaggio marginale, inserito in un periodo della storia di Roma secondario o, comunque, lontano dal rigoglio dell'Impero cui si è abituati a pensare: è il momento della decadenza, dello sfaldamento, degli ultimi sprazzi di uno stato millenario e glorioso, ormai completamente trasfigurato dopo Costantino e l'avvento del cristianesimo. Giuliano è un imperatore classicista, uno che vorrebbe ripristinare non tanto gli antichi fasti di Roma, quanto un'antica visione del mondo, un'antica fede: quella negli dei come espressione multiforme di un unico Assoluto - identificabile simbolicamente con il Sole, ma certamente non riducibile al solo astro fisico. Al di sopra dei livori, delle rivalità e della chiusura delle sette cristiane, Giuliano vorrebbe il ritorno all'ampiezza di una visione onnicomprensiva e liberale in ambito religioso. In quest'ampiezza egli riconosce lo spirito di Roma, la sua forza, e l'intelligenza della Grecia, patria della cultura e della sensibilità. Egli, però, è fuori del suo tempo, ormai orientato con determinazione verso la frammentazione delle culture, l'irrigidimento ideologico, l'unidirezionalità del culto. Il suo esperimento risulta anacronistico e, nonostante l'illuminazione dello studioso, la capacità di essere uno statista giusto e cosciente dei suoi limiti, e un ottimo stratega emulo di Alessandro, soccombe alla congiura: non viene compreso e suscita diffidenza e paura in tanti dei suoi contemporanei. Ecco, allora, che Giuliano viene ad essere un eroe tragico, il cui destino è già segnato, che forse pecca anche di ingenuità e di eccessivo idealismo, ma certamente - a suo modo e nell'ambito di una religione destinata a finire - un puro, un santo. La sua figura, amata, raccontata e dibattuta nel ricordo di due suoi amici, due vecchi filosofi, trova alla fine del romanzo un contraltare poetico, per certi versi commovente, in Giovanni Crisostomo, paladino del nuovo critianesimo, anche lui un puro e un santo - ma con diversa impostazione. Rimane l'enigma di un uomo che verrà giudicato un eretico e chiamato dai detrattori l'Apostata, ma dalla profonda sensibilità e umanità, forse unico nella storia di Roma. Alla fine si comprende la scelta rivoluzionaria del romanziere Vidal: Giuliano non è affatto un imperatore "minore"...

martedì 2 marzo 2010

Il crocifisso del samurai



Vorrei fare alcune notazioni su un romanzo letto negli ultimi giorni: "Il crocifisso del samurai" di Rino Cammilleri. Non ho la pretesa di scrivere recensioni, esprimo soltanto il mio parere di lettore, le mie impressioni. Il pregio di questo racconto è quello di informare e porre l'attenzione su un evento poco conosciuto in occidente, avvenuto nel Giappone del XVII secolo: quello della rivolta dei samurai di fede cristiano/cattolica. Nel 1637 circa quarantamila persone composte soprattutto da contadini, con donne e bambini, oppressi dal potere del governo militare e guidati da una minoranza di guerrieri esperti, si ribellarono finendo per asserragliarsi in un castello in disuso, quello di Hara. L'assedio durò cinque mesi e mise a dura prova l'onore dello Shogun, che non riusciva ad avere ragione dei ribelli nonostante l'ingente impiego di forze perfettamente armate e addestrate. L'epilogo, naturalmente, fu il massacro totale degli insorti, ma provocò anche la perdita di settantamila uomini appartenenti alle truppe governative. Cammilleri pone l'accento sul fatto che i ribelli professavano la fede cattolica, introdotta in Giappone in precedenza dal padre missionario Francesco Saverio, e ritiene l'intero episodio analogo alle storie di martirio e di persecuzione cui l'agiografia cristiana fa tradizionale riferimento. Secondo me, però, esistono possibili argomenti di discussione sul romanzo o, perlomeno, di riflessione, che vorrei qui accennare:

1. la fede cristiana è qui presentata come una seria alternativa all'animismo shintoista e al buddismo giapponese - anzi, come l'unica vera religione. Prescindendo da quest'ultima affermazione - che a mio parere non necessita di commento - un'alternativa deve però avere i caratteri della novità, e probabilmente questa - nell'epoca esaminata - stava proprio nel suggerire agli "oppressi" una possibilità di riscatto, di uguaglianza con gli altri uomini, e forse anche nel fatto che si trattava di una religione proveniente dall'estero e quindi, agli occhi dei giapponesi, poteva avere una colorazione in più dal punto di vista della possibilità di mutare l'oppressiva cultura dominante. Cammilleri, invece, intravvede la motivazione primaria della rivolta nella rivendicazione della libertà religiosa, ritenendo la motivazione del disagio economico, della tassazione eccessiva e dei soprusi governativi, soltanto secondaria e marginale. Però viene da chiedersi: perché gli oppressi dovrebbero essere così battaglieri nel professarsi cattolici, se non perché questa religione fa intravvedere loro la possibilità di una giustizia superiore e di un riscatto dalle loro condizioni?
2. Dai discorsi dei personaggi e dalle situazioni illustrate nel romanzo, la religiosità cattolica mi pare venga a identificarsi soprattutto (vista anche la situazione disperata in cui si trovano gli insorti) nel fare affidamento sulla misericordia di Maria e di Gesù e sulla promessa di una vita felice dopo la morte. Non mi sembra che ci sia altro. Però, se si trattasse solo di questo, non si spiegherebbe perché i protagonisti non ricorrano al buddismo amidista piuttosto che ad una religione straniera: questa forma di buddismo, infatti, promette un'esitenza paradisiaca dopo la morte per intercessione di Amida (Amitabha) che, nella sua misericordia, aiuta tutti coloro che si rivolgono a lui con la semplice invocazione "Namu Amida Butsu" (= esprimo devozione al Budda Amida). Nell'amidismo la vita terrena consiste più o meno in una valle di lacrime di stampo cattolico, e la vera felicità va cercata altrove, in paradiso. Forse i giapponesi che parteciparono alla rivolta intravvidero nel cristianesimo qualcosa di più di una promessa ultraterrena, perché questa l'avevano già nella loro tradizione. Probabilmente trovarono nel cristianesimo cattolico qualcosa che, in realtà, difficilmente si potrebbe rintracciarvi: la forza di rivendicare i propri diritti ad un'esistenza migliore in questo mondo. Forse neanche il ricorso alle armi è propriamente in linea con il messaggio del Cristo, ma i samurai rivoltosi - evidentemente - non furono particolarmente sensibili agli aspetti non violenti della religione che abbracciavano (come non lo sono mai stati neppure i cristiani d'Occidente, sia cattolici che protestanti).
3. La compassione e l'uguaglianza fra tutti gli esseri viventi, che il romanzo pretende siano un'esclusiva cristiana, sono presenti in larga misura nel buddismo - particolarmente in quello del Sutra del Loto, professato soprattutto dalle scuole Tendai, Shingon e da quella di Nichiren. All'epoca, però, le prime due correnti erano in una situazione di declino e di sudditanza rispetto al potere politico e la terza, sebbene fondata nel XIII secolo da un grande e illuminato riformatore, Nichiren Daishonin, si era chiusa nel proprio ambito dottrinario senza riuscire ad offrire aiuto alla gente comune. Eppure in quest'ultima scuola c'erano già gli strumenti sia teorici che pratici e di fede per operare una grande ed efficace rivoluzione liberatoria e non-violenta: evidentemente i tempi non erano ancora maturi, e il messaggio del buddismo del Sutra del Loto e di Nichiren era ancora troppo avveniristico. Questo non significa, però, come lascia intendere Rino Cammilleri, che nella religione tradizionale dei giapponesi un tale insegnamento non ci fosse...

martedì 23 febbraio 2010

Pisces


Visto il mio post precedente riguardante l'inizio del Nuovo Anno Cinese e il relativo simbolo astrologico annuale, vorrei qui proporre alcune riflessioni derivate dall'astrologia occidentale. In particolare il 18 febbraio siamo appena entrati nel segno dei Pesci - che ci accompagnerà fino al marzo inoltrato. Personalmente non sono molto interessato all'astrologia "da rotocalco", però mi sembra di poter affermare che il sistema astrologico è stato alla base della conoscenza e della scienza antica per migliaia di anni, fino alle porte dell'era moderna - diciamo, più o meno, fino al XVIII secolo. Si tratta di un complesso sistema logico e analogico che riassume in sé moltissimi campi di osservazione della vita e della realtà, da quello naturalistico e legato ai cambiamenti stagionali, ai cicli agricoli, alla psicologia individuale e di relazione, alla medicina e via dicendo. L'attuale momento del ciclo annuale, che va dalla fine di febbraio all'equinozio di primavera, è caratterizzato da una sorta di preparazione e di apertura al nuovo, di abbandono graduale delle difese e delle chiusure connesse anche simbolicamente con l'inverno e con il clima rigido, per fare spazio all'indifferenziato mare di influenze vivificanti che introducono alla prossima bella stagione. Come i pesci del simbolo fluttuano nel mare, allo stesso modo il nostro organismo e la nostra psiche si aprono all'infinito mare della vita, rispetto al quale siamo come feti nel grembo della Grande Madre Natura. E' il ghiaccio invernale che si scioglie e ridiventa acqua fecondante, senza più cristallizazione, frontiera, definizione. E' il trionfo della globalità, dell'indifferenziazione, del fluire, dell'inafferrabilità. Tutte queste percezioni e osservazioni magari sembrano esagerate, ma vi sono precisi segnali nel nostro corpo, nella mente e nelle percezioni, che hanno proprio le caratteristiche e il sapore di questo scioglimento, di questo passaggio dallo stato solido a quello liquido... Chi segue una pratica di meditazione può essere molto aperto a questo tipo di sensazioni suggerite dalla natura, e in questo periodo può cercare di trovare nel suo percorso introspettivo l'apertura dell'individuale all'universale, l'abbandono delle resistenze e delle sovrastrutture con il profondo rilassamento e la vitalità che ne derivano. E' il momento dell'arrendersi alla vita, dell'accettazione, del lasciar andare, del ritrovare sicurezza nel superamento delle strategie della mente - spesso generatrici di tensione e separazione - e degli attaccamenti.

venerdì 29 gennaio 2010

Anno della Tigre


Il prossimo 14 febbraio avrà inizio il nuovo anno della tradizione estremo-orientale. Il calendario lunare cinese identifica ogni ciclo annuale con un animale simbolico, e quello che sta per arrivare sarà l'Anno della Tigre del Metallo. Attenzione, dunque, a ben utilizzare i valori energetico-simbolici correlati: potremo contare su insospettate risorse di coraggio e determinazione, tali da riuscire ad affrontare situazioni difficili o pericolose con successo. Queste qualità "forti" sono già dentro di noi - non è la Tigre cinese a conferircele; però in questo periodo sarà più facile arrivarci, attingere ad esse, perché il ciclo "cosmico" ce le mette a disposizione. Per fare un esempio: in estate siamo tutti più inclini a muoverci, uscire, rilassarci, goderci l'ambiente naturale, aprirci in vario modo. Sono possibilità che abbiamo sempre, ma d'estate viene naturale sfruttarle, e lo facciamo senza doverle ricercare, senza troppo sforzo: la stagione favorisce. Allo stesso modo, secondo i cinesi, nell'anno della Tigre abbiamo più facilità nel trovare il coraggio e la forza di risolvere vecchie situazioni, di rinnovarci. Siamo più creativi, ma anche più insofferenti rispetto agli ostacoli e alle ingiustizie, e disposti a combattere sfidando le circostanze. L'elemento Metallo, poi, saprà dare alle energie della Tigre meno passionalità, maggiore precisione e accuratezza nel perseguire dei risultati, più concretezza e lucidità nell'operare delle scelte.

giovedì 7 gennaio 2010

Ringraziamenti


E' accaduto negli ultimi giorni un episodio molto spiacevole nella mia vita personale, un conflitto tanto aspro con una componente della mia famiglia d'origine che per poco non è giunto ad estreme conseguenze. Ringrazio di cuore tutte le persone che mi hanno espresso comprensione e che mi sono state di sostegno: a loro devo il recupero di un pò di coraggio e di serenità. Fra queste vi sono componenti della famiglia originaria come anche di quella acquisita, e persone veramente amiche - tutti molto cari per il loro aiuto, a cui voglio bene. Ringrazio in modo particolare due carissimi amici con i quali, negli ultimi tempi, ho avuto divergenze d'opinione di cui c'è anche traccia sulle pagine di questo blog: al di là delle differenze "filosofiche", hanno saputo dimostrarmi tanto di quell'amore e comprensione da commuovemi profondamente. Grazie!