martedì 25 maggio 2010

Un cappello pieno di ciliege


Mi piacerebbe saper dire qualcosa su questo libro, ma prevale in me la sensazione di non potere e di non riuscire - mi sembra di ridurlo, rovinarlo in qualche modo. Il libro bisogna leggerlo, e conferisce un immenso godimento il farlo. In esso si dipana gran parte della nostra storia collettiva dal Settecento in poi, raccontata con l'umanità e la sagacia di Oriana Fallaci. E' il testamento di questa grande scrittrice, il libro che documenta la sua ricerca delle radici, degli antenati, del significato della sua stessa esistenza che - mentre lei scrive - si dirige velocemente verso la morte per malattia (avvenuta nel 2006). Forse proprio la consapevolezza della fine imminente è il retrogusto del romanzo, lo sfondo più vero. Non sta a me dire che cosa Oriana pensasse della morte: lo scrive molto bene lei, come anche descrive benissimo le motivazioni, gli stati interiori che la attraversano nel far rivivere attraverso la sua sensibilità e intuizione quei genitori, nonni, bisnonni e arcavoli che, con le loro vicende, sofferenze, incertezze, vittorie, hanno formato la sua stessa vita, la sua personalità, forse perfino - almeno in parte - il suo destino. Oriana Fallaci, atea convinta, ricostruisce religiosamente la vita che la anima e anche la vita di coloro che misteriosamente sono dentro di lei, nei suoi geni. Li guarda in modo penetrante, onnicomprensivo, veggente. Mi ricorda il Budda quando, in una delle veglie prima dell'Illuminazione, vede tutte le sue vite precedenti e anche quelle di tutti gli esseri viventi. Così Oriana percepisce negli antenati quasi delle sue reincarnazioni passate e arriva paradossalmente a delineare una sorta di dimensione metafisica dalla quale attingerne il ricordo. In fondo, poi, la veggenza del suo passato getta luce anche sul nostro, leggendo ci si sente partecipi, si rivive il periodo napoleonico, le guerre, la povertà dignitosa dei contadini, la sofferenza della gente, il fanatismo politico, il dogmatismo religioso, la rivoluzione industriale, l'avventura di frontiera nel "nuovo mondo" e le mille altre cose che sono nel nostro DNA, quello di noi lettori, perché tutte le "ciliege" del titolo sono anche quelle delle nostre passate vite, dolorose e al tempo stesso gustose, piene di umana saggezza e luminosità.

giovedì 13 maggio 2010

Televisione: gare e televoti.


Ho notato che nella televisione d'intrattenimento esistono due modalità tipiche della maggior parte dei programmi: la gara fra concorrenti e il televoto. Anzi, si potrebbe quasi dire che queste componenti stanno talmente dilagando che tendono ad entrare in qualche modo - anche in piccola parte - in ogni trasmissione. Per esempio anche nelle trasmissioni d'informazione può esserci una partecipazione del pubblico attraverso l'invio di SMS con commenti: non è proprio un televoto... ma qualche analogia c'è! La gara, particolarmente sotto forma di quiz, è quasi nata con la TV: non serve, tanto sono noti, ricordare il "Lascia o raddoppia?" di Mike Bongiorno o il "Musichiere" di Mario Riva, antenati degli attuali format di quiz e, forse, in parte, addirittura dei reality show. Anche un qualsiasi programma musicale è presentato sotto forma di competizione fra cantanti: non solo il festival di Sanremo, ma anche i nuovi prodotti televisivi - perfino quelli riguardanti non la musica leggera ma la lirica, oppure il ballo - sono delle gare, e in tutti c'è - insieme all'opinione della giuria - il decisivo parere dei televotanti. In effetti questo Televoto è il prodotto delle recenti tecnologie e anche di una moderna tendenza a coinvolgere attivamente il pubblico, a non lasciarlo spettatore passivo; dando, inoltre, l'impressione di una vera (o supposta) partecipazione democratica a qualsiasi verdetto, ad ogni decisione. Tale partecipazione può assumere perfino la caratteristica di una contribuzione in denaro - solitamente piccola, di uno o due euro - ad iniziative assistenziali, alla ricerca scientifica, alla beneficenza nelle sue varie forme.
Personalmente, come spettatore, mi viene da riflettere e da interrogarmi su questo proliferare di gare e di competizioni. Possibile che non sia più possibile vedere - ad esempio - un programma di canzoni, magari anche molto godibile di per sé, senza che vi debba essere per forza un giudizio, una giuria, un televoto e un vincitore? Mi chiedo: perché lo fanno? Mi rispondo: probabilmente perché così il programma risulta più interessante, attrae di più. Abbiamo, dunque, dentro di noi questo bisogno di lotta, questo forte desiderio di agonismo simile a quegli antichi spettacoli di massa che si consumavano nei circhi e negli anfiteatri? E al contempo: abbiamo questo bisogno di partecipare attivamente all'esito della competizione, proprio come - ancora una volta - facevano gli antichi romani, quando gli spettatori stessi decretavano la vita o la morte del gladiatore di turno?
Ho posto delle domande, ma non ho risposte certe. Forse siamo davvero di fronte a pulsioni ataviche che si ripropongono attraverso i moderni mezzi tecnologici e la televisione. Sicuramente la vittoria e la sconfitta sono grandi archetipi dell'animo umano. Così anche la collettività, la forza della massa è un archetipo, cui si aggiunge l'esaltazione attuale dell'individualità - della scelta personale, del voto, della libertà del singolo di esprimere una preferenza. Mi pongo ancora una domanda: non siamo forse, ancora una volta, alla caricatura, all'immagine deformata e grottesca della democrazia - che invece non è pulsione, esaltazione dell'io, ma consapevolezza individuale e partecipazione?...