martedì 28 febbraio 2006

Jung e la Tradizione.


Dopo aver scritto qualche riflessione su “Freud e la Cabala” è conseguente e quasi obbligato il ragionare su Jung e tentare un raffronto più o meno sugli stessi temi. Tuttavia è piuttosto difficile ‘analizzare’ il pensiero del grande psicologo svizzero, anche perché la sua trattazione è meno sistematica, meno didascalica e più creativa di quella del Maestro della Psicoanalisi. Carl Gustav Jung ha sicuramente cercato di affondare la sua ricerca nei recessi più misteriosi della psiche umana e, se riguardo a lui si può parlare di Cabala, non lo si può certamente fare limitandosi al solo sistema ebraico, ma riferendosi al senso più vero - quello etimologico - della parola: ‘Cabala’ come ‘Tradizione’, cioè come qualcosa che gli stessi cabalisti ebrei derivano da eredità egizie, mesopotamiche, caldee, orientali e, probabilmente, da un patrimonio di conoscenze primordiale antichissimo e insito nello spirito dell’uomo da sempre e per sempre. Nell’opera scientifica di Sigmund Freud potevano forse emergere in maniera inconscia gli elementi parzialmente repressi della sua origine culturale israelita, ma in Jung abbiamo una trattazione consapevole dei grandi temi interiori e spirituali dell’umanità e quindi una maggiore universalità e complessità. Freud si dichiarava ateo ma la sua Psicoanalisi, proprio a somiglianza del Dio della Bibbia, era una divinità gelosa ed esclusiva che esigeva una cura ‘monoteistica’, di cui lo psicoanalista viennese, novello Mosè, era profeta e strenuo difensore. Jung invece, guidato da un daimon incostante, libertario e polimorfico, veniva spinto in modo imprevedibile ad esplorare territori ineffabili, contraddittori, talvolta rischiosi sia in senso personale che professionale, frammentari e al tempo stesso unitari, come per la costruzione di un grande Mandala circolare e spiraleggiante, cioè di una concezione onnicomprensiva ed evolutiva della conoscenza e dello sviluppo dell’anima. Si potrebbe perfino affermare che l’incontro-scontro fra i due grandi sia stato proprio quello fra due sistemi filosofici, due punti di vista sul mondo e sull’uomo, l’uno ebraico e l’altro ‘ariano’, dove Jung - distaccatosi dalla Psicoanalisi prima abbracciata - finiva per recuperare e riproporre una concezione ‘platonica’, filosofica e metafisica, in contrasto con quella realisticamente concreta, patriarcale, esclusiva e monoteisticamente dogmatica di Freud. Secondo qualcuno, anche in considerazione dei giudizi dati dallo stesso Freud su Jung nel momento della rottura dottrinaria, la Psicoanalisi veniva in qualche modo da lui rifiutata perché sostanzialmente ebraica e quindi estranea, inaccettabile; addirittura vi fu, forse anche a causa di queste osservazioni, un sospetto di anti-semitismo che pesò sullo psicologo svizzero per molto tempo, rinforzato dal fatto che per un certo periodo egli conservò con l’approvazione della Germania nazista una posizione di potere e responsabilità in qualità di medico della psiche. Tuttavia personaggi anche di rilievo della cultura israelita come Gershom Sholem ritennero tali accuse totalmente prive di fondamento: sembra che Jung, invece, cercasse in quel periodo di proteggere gli analisti ebrei e le loro ricerche scientifiche. Tornando alla creazione dello psicologo svizzero, la sua Psicologia Analitica, sarebbe superfluo spendere su di essa ulteriori parole, sia – come accennavo – per la complessità e l’indefinibilità della concezione, sia perché si è attinto ad essa a piene mani, soprattutto da parte della cultura New Age e delle moderne correnti di ricerca religiosa e perfino parapsicologica, e quindi se ne è già discusso molto e in maniera certamente più autorevole. Ciò che soprattutto vorrei esprimere è il fatto che, a mio parere, le due grandi correnti moderne della ricerca dell’anima, quella junghiana e quella freudiana, possano inserirsi a pieno diritto nella Tradizione – magari sottolineandone aspetti parziali, diversi ma complementari – ambedue tendenti a ciò che Jung chiama processo di individuazione e che per Freud rappresenta una maggiore autonomia dell’io rispetto a complessi ed elementi irrisolti e rimossi della personalità: in breve aventi l’obiettivo della crescita interiore. Per Tradizione intendo quella corrente più o meno palese, più o meno sotterranea e occulta, che si dipana attraverso la storia e che rappresenta il legame dell’uomo con sé stesso, con la sua spiritualità. Sono abbastanza vicino all’opinione di chi, come Guenon, ritiene che una civiltà superiore abbia preceduto la nostra in epoche lontane e che la Tradizione Unica fosse la cultura allora dominante, poi smembratasi in mille rivoli e sotto-tradizioni di cui oggi conserviamo soltanto i frammenti. Differentemente da René Guenon non sono così critico verso i tentativi attuali, anche limitati e parziali, di ritrovare quella saggezza e quella conoscenza perduta – che altro non è che il segno di una coscienza evoluta. Per questo motivo ritengo che l’epoca odierna, pur così frazionata e quantificata, veda comunque dei rispettabili tentativi di crescita e la Psicologia – particolarmente quella junghiana - può considerarsi uno di questi. Certamente sia Jung che Freud si confrontarono con i dogmi della loro e della nostra epoca, per la maggior parte materialisti e scientisti, e il loro lavoro ne risente. Però ritengo che queste elaborazioni siano utili e necessarie alla scoperta di una nuova spiritualità, siano un gradino in più nella direzione dell’osservazione di sé, e non dovrebbero essere disprezzate da chi è interessato a recuperare una linea di saggezza antica e superiore. Come recita un detto del buddismo giapponese: per potersi rialzare dopo essere caduti, è necessario appoggiarsi sulla terra…

4 commenti:

  1. la psicologia è andata avanti oltre jung e freud, con la psicologia umanistico esistenziale, peccato che non si studi all'università, però ci sono libri e scuole. La risposta alle sue esigenze forse già c'è o almeno una cultura che indirizza il pensiero e l'azione. salve
    postato da mabruogn il 28/02/2006 15:00

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  2. Forse è vero quando sostieni che in epoche passate c'è stata quella che tu chiami Tradizione Unica. Una sfacettatura di questa Tradizione potrebbe, nel suo microcosmo, essere rappresentata dall'Alchimia che aveva ben chiaro come la conoscenza, nella sua forma più alta, necessitasse del connubio Spirito-Materia per esplicitarsi appieno. L'Opus Magnum psicologico potrebbe essere sintetizzato, come dici, dalla relazione sistemica delle idee junghiane e freudiane. Ma, forse, l'aspetto procedurale che può concretizzare il continuo protarsi e influenzarsi dello Spirito con la Materia può essere riassunto dalla "filosofia del divenire" (così la chiamo personalmente) di Eraclito.
    postato da Giuseppe il 04/03/2006 16:41

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  3. Si, la sua notazione è giusta: gli sviluppi successivi della psicologia sono tanti, articolati e interessanti. Tuttavia (e posso sbagliare) ho l'impressione che ci sia qualcosa nei due fondatori di "archetipico" (!), tale da far sì che essi rimangano comunque due figure di riferimento e ispirazione al di là dell'effettiva portata delle loro teorizzazioni. Un poco - e non vorrei osare troppo - come Platone e Aristotele per la storia della filosofia, dei quali si può dire che ancora siano presenti oggi a rappresentare i due filoni principali della storia della filosofia - quello della percezione intuitiva del "mondo delle Idee" e quello della riflessione logica sui dati sensibili. Jung e Freud mi sembra che ripropongano nel mondo dell'indagine psicologica la stessa eterna contrapposizione/complementarità fra, diciamo, spirito e materia, mondo interiore e mondo esteriore, eccetera...
    postato da Maurizio il 01/03/2006 09:35

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  4. Carissimo Giuseppe, come sempre i tuoi commenti suggeriscono idee molto interessanti che andrebbero sviluppate di per sé, cioè meriterebbero una trattazione specifica. Per ciò che riguarda Eraclito posso dirti questo: che anche lui - pur prospettando una sorta di alternanza ciclica e complementare degli opposti - nell'ambito della filosofia greca non riuscì del tutto a rappresentare l'equilibrio degli stessi, cioè un "terzo elemento" che li unificasse e trascendesse. Questo perché illustrò soprattutto uno dei "poli" della contrapposizione e così fu compreso dai contemporanei (ad esempio da Platone). Infatti lui rappresentava, nell'interpretazione del reale, la polarità del movimento, dell'incessante divenire; mentre Parmenide indicava l'immobilità, il non mutamento sostanziale dell'esistente. Dov'è la Verità: tutto muta oppure tutto è immutabile - in una situazione di "eterno presente"? Personalmente credo che sia possibile una concezione in cui siano vere entrambe le affermazioni, sia quella che fonda sul tempo e sia quella che fonda sul non-tempo. Ma, in questo senso, tendo a rivolgermi di più alle concezioni dell'Oriente che mi sembrano più chiare e onnicomprensive.
    postato da Maurizio il 06/03/2006 09:24

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